Israele: una storia scritta guerra dopo guerra

Terra santa per ebrei, cristiani e musulmani. Bagnato da tre mari, che dalla costa sale fino alle Montagne della Galilea, Israele ha trovato il suo posto nel Medio Oriente. Un Paese che ha visto la sua storia scriversi guerra dopo guerra, fino a raggiungere un instabile equilibrio. Un’anomala normalità per cui ha dovuto lottare, affrontando gli Stati arabi confinanti, contrari alla presenza del nuovo vicino.

Cartina di Israele dal 1947 al 1967. Si notino le variazioni territoriali (fonte Economist)

Il punto di vista geopolitico

La prima guerra arabo-israeliana

Il 29 novembre 1947 l’ONU approvò la risoluzione 181: la Palestina sarebbe stata spartita in uno stato ebraico (56% del territorio), mentre la parte restante avrebbe costituito la parte araba. La decisione non era però condivisa dalla lega araba, che si oppose fermamente. Il giorno successivo, gli eserciti di Egitto, Siria, Transgiordania e Libano invasero il neonato stato di Israele, in nome di una «guerra di liberazione». All’epoca, la nazione ebraica non disponeva di un forte esercito, ma contava principalmente su gruppi come l’Haganah e il Palmach o su formazioni paramilitari poi confluite nelle Forze di Difesa Israeliane (IDF, chiamate Tzahal). Nonostante questo, dimostrò un’inaspettata capacità bellica che gli permise di contrattaccare e annettere parte dello stato arabo predisposto dall’ONU.

Soldati arabi durante la prima guerra arabo-israeliana (fonte Wikipedia)

Le Nazioni Unite cercarono nuovamente di trattare con le due parti, fino all’assassinio del mediatore dell’ONU Folke Bernadotte (politico e diplomatico che permise la scarcerazione di oltre 30mila persone dai campi di concetramento durante la Seconda Guerra Mondiale). I responsabili erano i membri del Lehi o Banda Stern, un’organizzazione paramilitare di matrice sionista. L’11 dicembre 1948 fu così emessa la risoluzione 194, che esprimeva l’apprezzamento per il mandante ONU ucciso e prevedeva la demilitarizzazione di Gerusalemme e il ritorno dei profughi palestinesi nelle loro case. Gli eserciti arabi furono sconfitti e seguirono gli armistizi del 1949. Rimaneva dunque un unico stato: quello di Israele, impegnato a difendere i confini della cosiddetta «linea verde», che lo separava dagli Stati arabi. Una knaba, una catastrofe. Così la popolazione araba palestinese definisce il periodo che seguì alla fine della prima guerra arabo-isreaeliana. Un esodo di palestinesi verso le nazioni limitrofe, mentre a quelli che restavano, Israele impediva il ritorno a casa.

La crisi di Suez

Dopo qualche anno, il conflitto entrò in una nuova fase. Il protagonista era il presidente egiziano Gamāl ʿAbd al-Nāṣer, una figura che personificava l’ideologia del panarabismo, ossia la riunione di tutti i popoli arabofoni. Nel 1956, il leader assunse il controllo diretto del Canale di Suez (tra il delta del Nilo e la Penisola del Sinai), allora sotto proprietà anglo-francese. L’atto non solo scatenò l’intervento di Francia e Regno Unito, ma anche quello di Israele, preoccupato dall’alleanza araba dell’Egitto con Siria e Giordania. Lo Stato ebraico impedì al presidente la navigazione per il Canale e non ebbe difficoltà a fronteggiare le forze egiziane, costrette alla ritirata. L’ONU si oppose all’intervento di Tel-Aviv e inviò delle unità in Egitto per scacciare le milizie aglo-francesi e d’Israele. Ma la guerra era appena iniziata. Nel 1967 l’Egitto chiese il ritiro dei caschi blu lungo la frontiera del Sinai e chiuse a sua volta la navigazione alle navi israeliane per gli Stretti di Tiran (all’estremità sud della Penisola del Sinai). Ecco dunque il casus belli per Israele.

La guerra dei sei giorni

Il 5 giugno dello stesso anno (fino al 10 successivo), Israele attaccò le forze aeree arabe e conquistò parte del territorio, incluse la Penisola del Sinai, la striscia di Gaza al confine, la Cisgiordania, la parte araba di Gerusalemme (sottratte alla Giordania) e le alture del Golan (appartenute alla Siria). I territori occupati divennero motivo di dibattito tra Israele, che prospettava una loro definitiva annessione, e la risoluzione ONU 242, che prevedeva il ritiro di Israele in cambio del riconoscimento dello stato da parte degli Stati arabi. Da entrambe le parti, però, esistevano delle realtà fortemente nazionaliste che impedivano di trovare un accordo di pace: i gruppi estremisti israeliani rifiutavano il dialogo, mentre l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) si offriva come rappresentante dei diritti del popolo palestinese. Le ripercussioni provocarono squilibri anche nei Paesi vicini.

Soldati israeliani durante la guerra dei sei giorni (fonte Avvenire.it)
Tra Yom Kippur e Ramadan

Yom Kippur, o «Giorno dell’espiazione», è una festività ebraica in cui attraverso il digiuno ci si arrende alla completa penitenza, in attesa del giudizio divino. Lo stesso nome viene dato alla quarta guerra arabo-israeliana. Nello stesso periodo, tra la fine di settembre e l’inizio ottobre del 1973, cadeva anche il Ramadan, il mese del digiuno arabo. E proprio tra la parte ebraica e araba avveniva il conflitto che vedeva Egitto e Siria attaccare Israele. Lo Stato ebraico perse il controllo del Canale di Suez, ma riuscì a reagire con efficacia. L’ONU fu costretto ad intervenire per fermare lo scontro con la risoluzione 338 (proposta da Stati Uniti e Unione Sovietica), fino agli accordi fra le due parti, pronte al dialogo.

Il punto di vista militare

Se c’è una certezza, nella storia israeliana, è l’enorme capacità militare delle IDF. Nate da gruppi armati di ex combattenti ebrei della seconda guerra mondiale, oltre che da sopravvissuti alla Shoah e volontari arruolati nelle campagne, le truppe al servizio di Israele hanno sempre avuto successo nel loro compito primario: difendere il loro paese. Tanto in momenti di fragilità, quanto in quelli più saldi.

Pochi, ma buoni

 Il battesimo del fuoco delle IDF si ebbe immediatamente dopo la dichiarazione d’indipendenza del 1948. Il 15 maggio gli Stati arabi confinanti invasero il neonato paese degli ebrei. Contro una forza combinata di 270 carri armati, 300 aerei e oltre 50.000 uomini, gli israeliani potevano schierare solamente 30.000 soldati e tre tank. Ancora separati in più milizie, la cui unificazione era ancora poco salda, i soldati delle nascenti IDF erano veterani agguerriti. Il gruppo dirigente era composto da molti ebrei che avevano combattuto tra le fila degli Alleati durante la seconda guerra mondiale. Infiammati anche da un patriottismo nazionalistico, quei combattenti erano disposti a tutto pur di assicurare la sopravvivenza del loro neonato paese.

Nel corso della prima guerra arabo-israeliana (1948-49), l’organico delle IDF crebbe fino a 117.500 uomini. Complice fu anche e soprattutto la forte immigrazione di ebrei dall’Europa continentale, che andarono a raggiungere i militari già in linea.

Soldati delle IDF sul fronte egiziano nel 1948 (fonte Flashbak)
Armi di contrabbando

Quello delle IDF non fu un debutto semplice. Al momento della loro effettiva costituzione, il 26 maggio 1948, le unità israeliane disponevano a malapena di 20.000 armi personali. Un soldato su tre non aveva di che combattere. I veicoli scarseggiavano, essendo stati per lo più forniti di contrabbando, e mancavano del tutto gli aerei. Furono necessari diversi mesi perché Israele disponesse di risorse sufficienti, di una marina, un’aviazione e una forza corazzata. Furono soprattutto i britannici, con i materiali abbandonati dalle truppe prima di lasciare la regione, la Francia e la Cecoslovacchia a garantire il complesso ponte aereo e navale che riforniva costantemente le IDF. In tutti i casi, gli aiuti militari consistevano in mezzi e sistemi sopravvissuti al conflitto mondiale.

Alla fine la guerra di difesa venne vinta anche grazie a quelle forniture di contrabbando, sapientemente utilizzate dagli agguerriti militari israeliani. Ed era solo l’inizio.

Truppe forti e logistica debole

Nel decennio successivo alla sua nascita, Israele rafforzò enormemente le forze armate. Fu soprattutto la Francia a fornire mezzi, aerei e munizioni. Dal canto loro, le IDF sapevano che prima o poi avrebbero dovuto dimostrare nuovamente le loro capacità. Addestramento e prontezza operativa erano le priorità. Anche per questo il capo di stato maggiore israeliano Moshe Dayan si concentrò sullo sviluppo delle capacità belliche, tralasciando quelle logistiche e di supporto.

Quando, nel 1956, l’Egitto nazionalizzò il canale di Suez, provocando la reazione di Londra e Parigi, le IDF erano pronte per una nuova prova di forza. Il 29 ottobre Israele invase la penisola del Sinai. I moderni carri armati AMX-13, insieme con i jet Dassault Mystére IV e Ouragan (tutti di produzione francese) ebbero rapidamente la meglio sulle impreparate formazioni egiziane. In una settimana gli attacchi terminarono. Nonostante il successo complessivo dell’operazione, Dayan dovette rivedere le proprie idee sulla logistica. Avanzando molto velocemente nell’inospitale deserto della penisola, infatti, le IDF avevano avuto difficoltà a rifornirsi di carburante e munizioni.

Una macchina da guerra

Nei successivi scontri armati del 1967 e del 1973 Israele mise a frutto tutti gli insegnamenti raccolti negli anni ’40 e ’50. La guerra dei sei giorni fu il punto di massimo splendore delle IDF. In meno di una settimana la potenza di fuoco israeliana fu capace di annichilire l’esercito e l’aviazione egiziana, ponendo l’intero Sinai sotto controllo dello stato ebraico. In contemporanea, le truppe riuscirono anche a respingere i tentativi di invasione da Siria e Giordania, conquistando in entrambi i casi diversi territori.

Al termine del conflitto Parigi, che fino ad allora aveva assicurato forniture militari all’avanguardia alle IDF, impose un embargo alla vendita di armi. Al suo posto, in tempi brevissimi, arrivò Washington. Accanto ai nuovi sistemi made in USA, Tel Aviv iniziò a sviluppare in autonomia nuovi mezzi, come i carri «Merkava» e i cacciabombardieri «Kfir».

Un carro israeliano Sho’t passa accanto a veicoli siriani distrutti durante la guerra dello Yom Kippur del 1973 (fonte ThoughtCo)

Il vantaggio tecnologico sui paesi arabi circostanti, riforniti con sistemi molto meno all’avanguardia dall’Unione Sovietica, divenne tale da consentire alle IDF di avere la meglio nella guerra dello Yom Kippur. Nonostante la pressoché totale assenza di preavviso e il basso livello di allerta iniziale, infatti, gli israeliani riuscirono a respingere gli attacchi avversari su tutti i fronti, avendo difficoltà solamente nella difesa del desertico Sinai. Con questa prova di forza, Israele guadagnò a buon diritto la nomea di inattaccabilità che ancora oggi lo contraddistingue.

Scenari futuri

Dopo lo Yom Kippur, i conflitti israeliani si sono spostati geograficamente e militarmente. Dal 1978 gran parte delle operazioni belliche si sono articolate lungo la frontiera siro-libanese. Non solo. Israele ha scelto di intervenire al di fuori dei propri confini per tutelare la sua sicurezza nazionale. Una prova lampante sono state le due invasioni del Libano, nel 1982 e nel 2006.

Per gli israeliani, però, la minaccia principale è sempre la stessa da 75 anni. Gli ospiti indesiderati continuano ad essere loro: i palestinesi. Ma questa è tutta un’altra storia.

 

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