L’Ipseoa “Carlo Porta” di Milano, una delle scuole a indirizzo alberghiero più note della città, è da giorni agitato dalle proteste. Gli studenti manifestano contro la decisione, approvata all’unanimità dal Consiglio di Istituto, di aggiungere al contributo volontario regolarmente previsto una seconda “retta”. La dirigenza motiva il provvedimento come una misura necessaria per il bilancio scolastico, ma studenti e famiglie non accettano l’imposizione.
Tre giorni di proteste
Rientro turbolento dalle vacanze di Natale per gli studenti dell’Istituto alberghiero “Carlo Porta” di Milano. Da martedì 7 gennaio, giorno della riapertura delle scuole, gli studenti hanno protestato fuori dai cancelli di via Uruguay 26. Il picchetto del primo giorno si è trasformato mercoledì mattina in un tentativo di occupazione (impedito dalla polizia) e ha continuato in forma di manifestazione nella giornata di giovedì.
Megafoni, cartelloni, lanci di uova e pomodori farebbero pensare all’ennesimo episodio di agitazione studentesca, ma quella del Porta non è la solita contestazione. A farlo pensare è la presenza dei genitori accanto agli studenti, in un affiancamento di forze che rende molto potenti le immagini di questi giorni. Nei video che circolano online la cancellata rossa separa genitori e figli da una parte e dirigenza scolastica dall’altra, in un faccia a faccia dove ognuna delle parti giudica inderogabili le proprie necessità.
Le ragioni di studenti e famiglie
Il motivo del contendere nasce da una delibera approvata all’unanimità dal Consiglio di Istituto il 16 dicembre scorso. Il provvedimento introduce, a partire da quest’anno, un’integrazione al cosiddetto “contributo volontario” che le famiglie versano annualmente alla scuola. Previsto in tutte le scuole statali, il contributo modale di iscrizione, comunemente conosciuto come contributo volontario, varia l’importo a seconda dell’istituto. Al Porta è particolarmente alto: dal 2018 ammonta a 195 euro per i ragazzi iscritti all’indirizzo di accoglienza turistica e al biennio (in comune per tutti gli studenti) e a 265 euro per quelli che frequentano le classi di cucina, sala e pasticceria.
«La preside – racconta un rappresentante degli studenti – non ha mai costretto nessuno al pagamento», dal momento che esso è volontario, ma quest’anno ha optato per un approccio più stringente. La dirigenza, prosegue lo studente, «non è comunque riuscita a riscuotere il pagamento da tutti, fermandosi a circa l’80%» degli studenti. Che peraltro non hanno contribuito tutti nella stessa misura: «L’effettività scende al 60%, perché molte persone hanno ottenuto una riduzione tramite l’ISEE».
La dirigenza ha chiesto quindi un secondo contributo, andando a sovraccaricare chi già aveva pagato in precedenza. L’integrazione ammonta in questo caso a 110 euro per i ragazzi del biennio e per gli iscritti ad accoglienza turistica e a 140 euro per i restanti studenti, iscritti a sala, cucina e pasticceria. Per forzare le famiglie al pagamento, si è aggiunta una forma di “ricatto”: «Ci hanno detto che senza questo contributo – proseguono i ragazzi – non si sarebbe potuti andare in gita». Questa imposizione ha aizzato gli studenti e le loro famiglie, che, terminate le vacanze, hanno alzato la voce con la scuola.
Una scuola “esigente”
Alla questione del contributo volontario si sono aggiunti altri motivi di biasimo nei confronti della scuola. «Ci sono animali, come blatte e topi – osserva il rappresentante – e manca il materiale». L’elenco prosegue: «Ci sono problemi strutturali seri e carenza di bidelli. Tutto questo ci ha fatto pensare che ci fossero anche dei problemi contabili e abbiamo protestato anche per questa motivazione». La scuola ha presentato i bilanci, apparentemente corretti, ma ciò non toglie che la struttura e i suoi apparati mostrino problemi evidenti, per i quali i genitori hanno contattato il Miur.
Nel frattempo, la dirigenza ha cercato di far valere le proprie ragioni, rivendicando la necessità del contributo. D’altronde, sottolinea la preside Rossana di Gennaro, il contributo è «indispensabile ed è dedicato interamente alla gestione dei laboratori. La prassi del nostro istituto è che non ci siano lezioni dimostrative: ciascuno studente fa pratica in prima persona con le proprie derrate». Il generale aumento del costo della vita di questi ultimi anni avrebbe però imposto un rincaro nelle spese che la scuola sostiene per procurare le derrate alimentari da mettere a disposizione degli studenti.
Inoltre, le fatiche economiche del periodo post-pandemico hanno condotto molte famiglie a smettere di pagare. L’intervento della preside ha cercato di muovere le coscienze: «Non pagare nulla, senza dare spiegazioni, senza chiedere di rateizzare o almeno di pagare l’assicurazione, non è un atto di senso civico: una scuola di qualità ha bisogno della partecipazione di tutti, secondo le proprie possibilità. È vero che la scuola è pubblica, ma se vuoi un ampliamento notevole dell’offerta formativa, un piccolo investimento devi farlo».
Il confronto tra scuola e famiglie
La risposta della preside non ha placato l’indignazione. I genitori ribattono: «Ci dicono che l’aumento è dovuto al costo della vita e delle materie prime», osserva uno di loro. «Ma tutto è aumentato, anche per chi lavora. Non siamo un pozzo senza fondo da cui attingere», conclude. In seguito alle proteste di questi giorni, la scuola ha provveduto a ritirare la misura che avrebbe estromesso gli insolventi dalle gite scolastiche. Inoltre, nel tentativo di trovare un punto d’incontro, ha convocato per il pomeriggio di venerdì 10 gennaio un tavolo di confronto tra scuola, genitori e studenti.
Quale che sia la soluzione definitiva, è evidente che la questione pone un problema di diritto allo studio. E se pure l’intera faccenda sembra richiamare la perenne piaga dell’evasione fiscale, dove a patire sono i contribuenti che spesso si sentono penalizzati al posto degli insolventi, è altrettanto vero che in ambito scolastico il diritto allo studio dovrebbe sempre essere la priorità. E rimanere tale anche quando prevede farina, verdure o caffè.