Wimbledon come un Mondiale: Sinner unisce l’Italia

Tocca il soffitto con la mano destra. Un gesto istintivo, quasi infantile. Sotto le sue dita sottili, all’ingresso del Centre Court di Wimbledon, una frase incisa nel marmo:  «If you can meetwith Triumph and Disaster and treat those two impostors just the same». L’ha scritta Kipling. L’ha scolpita Wimbledon. L’ha resa vera Jannik Sinner. “Se saprai affrontare il trionfo e la sconfitta e trattare questi due impostori allo stesso modo”. Ogni tennista la legge prima di entrare sul Centrale. Sinner alza il braccio e la sfiora mentre esce, dopo averli incontrati entrambi: il disastro, prima. Il trionfo, poi.

Veniva da mesi complicati. Dalla sospensione che lo aveva tenuto lontano dai campi. Dal ritorno, devastante: sembrava quasi non si fosse mai fermato. Ma poi è stato subito Alcaraz. Roma. Una sconfitta netta, pesante, ma ancora giustificata. Era il rientro, un boccone che andava giù più leggero. Poi c’è stata Parigi. Roland Garros. Un altro torneo dominato, un’altra finale. Questa volta giocata alla pari. Due set di vantaggio, tre match point. E poi, all’improvviso, la sconfitta. Bruciante. Inspiegabile. Più che un crollo fisico, un buco nero mentale. Alcaraz tornava campione, Sinner tornava a casa con l’amaro in bocca e un mucchio di dubbi addosso. Si diceva: ecco, la differenza è tutta lì. Uno, quando serve, vince. L’altro…

E invece no. Era solo il passaggio obbligato tra il disastro e il trionfo. A Wimbledon Sinner ha ritrovato sé stesso. Il ritmo. La fiducia. La testa. E alla fine, ha trovato la gloria. Ma questa vittoria non è solo un trofeo. È un cortocircuito culturale. È la prima vera incrinatura nell’egemonia del calcio. È la domenica in cui l’Italia ha smesso di aspettare il VAR e ha cominciato a capire le regole del tie-break. È il giorno in cui la folla si è spostata: non sull’erba dello stadio, ma su quella dell’All England Club. Sono le urla dalle case, le chiamate in vivavoce, i bar con la tv sintonizzata sull’erba. È San Siro che esplode durante il concerto di Marco Mengoni, non per un acuto, ma per un match point.

Più di Alberto Tomba, che fermava l’Italia per pochi minuti di discesa. Più di Valentino Rossi, che aveva monopolizzato le domeniche a due ruote. Sinner sposta gli equilibri. Fa uscire il tennis dai circoli, dai club con il dress code. È la democratizzazione dello sport. In pieno stile Wimbledon: dove un biglietto per la finale costava almeno 20.000 sterline, ma dove con 20 pound potevi appostarti sotto il terrazzo dell’All England Club e vedere un ragazzo altoatesino alzare il trofeo davanti a un popolo nuovo: quello italiano.

Rino Tommasi diceva: «Non ho paura di morire. Ho paura di non sapere chi ha vinto Wimbledon quell’anno». Rino, quest’anno, l’ha vinto un italiano. Il primo italiano di sempre, finalmente. E mentre Sinner toccava quella frase, uscendo dal campo, magari pensava proprio a questo: che nella vita, come nel tennis, si può cadere a Parigi e rialzarsi a Londra. Basta trattare il disastro e il trionfo allo stesso modo.

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