Un anno senza Kobe, l’uomo che ha ridefinito il concetto di limite

Il termine “Demone” affonda le sue radici nel greco antico e nasce senza quell’accezione unicamente maligna che ha poi assunto nel nostro linguaggio. Il “Daìmon” è l’entità che si pone a metà strada tra il mondo umano e quello divino, l’ostacolo che separa gli uomini dagli Dei.

Nella filosofia materialista greca l’essere mortale ha come scopo la realizzazione del proprio demone interiore, di ciò per cui è venuto al mondo. Ma deve farlo con la giusta misura, altrimenti prepara la propria rovina. L’uomo che colpevolmente ignora i propri limiti e giunge a desiderare l’immortalità, pecca di tracotanza, che è la presunzione di poter somigliare a Dio.

Di tutti i limiti la morte è quello principale perché, insita nella natura dell’uomo, gli nega l’ascesa all’Olimpo e il contatto col divino. Ma la morte non va temuta perché è assenza di sensazioni, dice Epicuro.  “Quando ci siamo noi la morte non c’è, quando c’è la morte non ci siamo noi.”

Il 25 gennaio 2020 i Philadelphia 76ers ospitano in casa i Los Angeles Lakers. Il Coronavirus è una strana infezione che si va diffondendo nella lontana Cina e il pubblico occupa regolarmente gli spalti del Wells Fargo Center. Il signore che veste la maglia 23 gialloviola, al secolo LeBron Raymone James, al momento della palla a due è il quarto marcatore di sempre nella storia del basket NBA. 33.626 punti segnati. Il terzo posto è 17 punti più in su.

“Continua a far crescere il gioco e vai a prenderti il prossimo”. L’ultimo post su Instagram di Kobe Bryant è per LeBron.

Phila vince meritatamente la partita ma il tabellino delle marcature di James segna comunque 29. Terzo realizzatore all-time: davanti a lui ora soltanto Kareem Abdul Jabbar e Karl Malone. Ma la gioia del traguardo raggiunto passa in secondo piano rispetto al sentimento di gratitudine, di riverenza e di amicizia nei confronti di chi su quel terzo gradino ci è stato per tanto tempo, fino a qualche minuto prima. Kobe Bryant.

“Continua a far crescere il gioco e vai a prenderti il prossimo”: un messaggio che ha l’aspetto di una benedizione, di un consapevole passaggio del testimone da chi ha reso la maglia dei Lakers un sinonimo di vittoria a chi si è preso sulle spalle il fardello di quell’eredità.

26 gennaio 2020. Qualche ora dopo il match di Philadelphia, sull’altra costa degli Stati Uniti un elicottero precipita tra le colline a ovest della San Fernando Valley, in una località che anche ad un anno di distanza resta difficile da nominare. All’interno del velivolo ci sono 9 persone incluso il pilota e nessuno sopravvive allo schianto. Alle 20:45 circa i primi giornali italiani confermano la notizia appena giunta dagli Usa: Kobe Bryant e sua figlia Gianna sono morti.

Quella domenica di fine gennaio è ancora nitida nella nostra memoria. Dove eravamo in quel momento, che cosa stavamo facendo? Il ricordo non se ne andrà. Ma si dice che nell’elaborazione di una perdita il tempo sia l’alleato più saggio e, poco alla volta, il cieco rifiuto del lutto cede spazio alla ricerca di senso.

Kobe ha accettato il concetto greco di limite, ma il desiderio ossessivo di migliorare lo ha portato a ridefinirne il significato. Un limite non è una parete oltre la quale è vietato guardare, ma un’illusione. Un riferimento necessario per orientarsi nello sterminato universo delle proprie potenzialità, ma pur sempre illusorio.

Kobe si è servito di tutti i limiti che la natura gli ha fornito per realizzare il suo demone e ora, ad un anno dalla scomparsa, il disegno generale ci appare più chiaro. Kobe Bryant non era nato soltanto per giocare a pallacanestro, ma anche e soprattutto per essere un riferimento nella vita degli altri. “La definizione di grandezza” diceva “è ispirare le persone che hai di fianco. La grandezza non è qualcosa che vive e muore con una persona”.

CALABASAS. È ancora difficile pronunciare quel nome, ma dobbiamo farlo. A Calabasas il 26 gennaio 2020, Kobe Bean Bryant ci lasciava a 41 anni. I Greci ci insegnano ad intendere la morte come il limite massimo. Quando c’è la morte non ci siamo noi, si diceva. Ma questa mattina ci siamo svegliati e, pensando a Kobe, abbiamo realizzato che anche quel limite può essere superato.

KOBE E GIANNA: PIU’ DI UN RAPPORTO PADRE-FIGLIA

“Tranquilli, ci penso io. Sarò io il nuovo Kobe”, Gianna Bryant a soli quattordici anni aveva le idee chiarissime. Gianna, o Gigi come la chiamava Kobe, aveva la stessa mentalità, la stessa dedizione al lavoro, la stessa voglia di diventare grande del padre e questo lui lo aveva capito subito.

Il rapporto tra i due era speciale. Kobe la portava alle partite spiegandole ogni situazione di gioco, i due lavoravano da soli a casa e in palestra. Gianna voleva diventare la migliore e Kobe faceva di tutto per far sì che il suo sogno diventasse realtà.

D’altronde, per lei non si fermava ai suoi insegnamenti, ma chiedeva consigli anche ai colleghi, uno su tutti Michael Jordan. Proprio Jordan, nel giorno del memoriale, ha rivelato che Kobe una volta lo chiamò in piena notte per chiedergli quali movimenti potesse insegnare a sua figlia di dodici anni e su che cosa lavorasse lui a quell’età. La risposta di MJ fu chiara: “Io a 12 anni pensavo di giocare a baseball. Lui mi rise in faccia”.

E a chi non credeva in lei, come successo in una partita di WNBA quando alcuni tifosi chiesero a Kobe quando sarebbe nato un maschio per continuare la generazione Bryant, lui rispondeva: “Questa signorina qui… lei, lei è something else”.

Kobe e sua figlia Gianna in un post su Instagram del 2019
MAMBA MENTALITY: LA PALLACANESTRO COME OSSESSIONE

“Mamba Mentality vuol dire che la cosa che si sta facendo in quel momento è quella più importante, l’unica cosa che conta”. Così Kobe spiegava la sua mentalità: la mente a servizio del corpo. L’amore viscerale per la pallacanestro unito ad una attenzione maniacale per i dettagli e l’abilità di insistere fino allo sfinimento, tutto pur di essere il migliore.

Già agli inizi tutto questo era evidente: in un allenamento pre-draft NBA il GM dei Lakers Jerry West lo fa giocare uno contro uno prima con Michael Cooper, 40enne assistente della squadra ancora in ottima forma e miglior difensore dell’anno in NBA nell’87; poi contro Dontae Jones, MVP in carica della SEC e reduce dalle Final Four NCAA con Mississippi State. Umiliati. Jones non termina neppure l’uno contro uno.

Ma anche una volta raggiunto l’olimpo della NBA, la Mamba Mentality era la stessa. Draymond Green, ala di Golden State, ha ricordato che in occasione di un Lakers-Warriors, nel suo anno da rookie, si presentò quattro ore prima in palestra per allenarsi. Pensava di essere solo, di essere il primo. No, Kobe era già lì che si allenava ed è in quel momento che Green dice di aver capito “che cosa significa essere un campione”.

Una mentalità che non è mai andata in pensione e non ha mai risentito degli infortuni. A tal proposito è celebre il siparietto al Jimmy Kimmel Live quando i Lakers, orfani di Kobe per infortunio, festeggiano allegramente la vittoria contro Boston nonostante il record dica 14 vittorie e 41 sconfitte. Jeremy Lin, Jordan Hill e Nick Young  ridono e scherzano con il giornalista, la reazione di Kobe è esemplare.

REGGIANO FOREVER

“Sai il mio cuore sarà sempre in Italia”. Già perché Kobe, avendo seguito papà Joe nella sua avventura nel Belpaese, in Italia è cresciuto tanto come uomo quanto come cestista. Non ha mai nascosto come l’aver lavorato duramente da piccolo sui fondamentali gli abbia poi permesso di avere un altro passo anche in NBA.

Ma soprattutto, ogni volta che poteva tornava sempre a Reggio Emilia – ultima squadra per cui giocò papà Joe in Italia – dove aveva ancora tanti amici e che considerava come una seconda casa. Oggi Reggio gli rende omaggio dedicandogli una piazza: “Largo Kobe e Gianna Bryant” che si trova, nemmeno a specificarlo, accanto al palazzetto dello sport della Pallacanestro Reggiana.

In Italia Kobe giocava con ragazzi più grandi della sua età. Ed era sempre il più forte
IL MORSO PIU’ VELENOSO DEL MAMBA: 81 PUNTI IN UNA PARTITA

Dopo i tre titoli in fila vinti nei primi anni 2000 con l’amico-nemico Shaq e la sconfitta in finale nel 2004 contro i Pistons, i Lakers vivono un periodo di transizione. Nella stagione 2005/2006 ritorna in panchina Phil Jackson e il draft porta in California Andrew Bynum, un centro di buone prospettive ma mai veramente esploso.

Il roster non è irresistibile e il quintetto a parte Kobe e Lamar Odom non fa paura. Ma il #24 è nel pieno della carriera, fisicamente e mentalmente è all’apice della sua forma. Nel mese di gennaio 2006 segna 43,4 punti di media a sera e il 22 gennaio scrive la storia.

Allo Staples Center arrivano i Toronto Raptors che chiudono il primo tempo avanti e tengono Kobe “solo” a 26 punti. Al ritorno in campo si entra nella fantascienza: segna con ogni tipo di movimento, da ogni distanza, è immarcabile. In 9 minuti i Lakers passano da -18 a +6. Alla sirena il conto finale è 81 punti in 42 minuti con 28/46 al tiro e 18/20 ai liberi: la seconda prestazione per punti segnati della storia della NBA. Nel secondo tempo i Raptors ne fanno 39, Bryant 55.

SESSANTA PUNTI NELLA SERATA D’ADDIO, MAI NESSUNO COME LUI

14 aprile 2016. Tecnicamente sarebbe l’ultima partita di regular season dei Los Angeles Lakers, ormai sicuri di non disputare i playoff. Ma quella sera non si gioca una semplice partita. Kobe Bryant, mesi prima, ha annunciato che si ritirerà a fine stagione: quel Lakers-Jazz sarà l’ultima gara della sua carriera.

Lo Staples Center è gremito in ogni ordine di posto, ci sono tutti: da David Beckham a Jay Z, da Jack Nicholson ad Adam Levine, e sono tutti qui per lui. Prima di tutto viene proiettato un video tributo sul tabellone, poi Magic Johnson prende il microfono per primo e ricorda che cosa Kobe abbia significato per i Lakers. Seguono a ruota i ringraziamenti di Shaq, LeBron, Fisher, Curry, Djokovic, suonano i Red Hot Chili Peppers; insomma, la partita è un extra allo spettacolo.

Già perché c’è anche la partita: i Jazz, come i padroni di casa, non hanno obiettivi; Kobe sì, vuole vincere. Dimostra di essere un umano e il primo canestro arriva dopo 7 minuti di gioco. Chiude il primo tempo a quota 22.

Lo Staples lo chiama: “We want Kobe”. E lui nel secondo tempo risponde e non fa sconti, il Mamba morde. Recupera i 15 punti di vantaggio dei Jazz segnandone 23 nell’ultimo quarto, tra cui un paio di canestri di puro talento. Alla fine sono 60 punti con 4 rimbalzi e 4 assist; i 50 tiri dal campo tentati sono ampiamente giustificati dal tipo di partita. Una sceneggiatura degna di un oscar, ma d’altronde siamo ad Hollywood e si parla di Kobe Bryant.

Jack Nicholson, tifosissimo dei Lakers, incredulo la sera dei 60 punti
VOGLIA DI VINCERE, SEMPRE. ANCHE FUORI DAL CAMPO

L’oscar… nessun giocatore di basket ha mai vinto un oscar. Un momento, nessun giocatore di basket eccetto Kobe Bryant ha mai vinto un oscar. Infatti, il Mamba, dopo il ritiro, ha scritto e sceneggiato Dear Basketball, un corto d’animazione basato sulla lettera che lui stesso pubblicò su The Players’ Tribune in cui annunciò il ritiro dalla pallacanestro a fine 2015.

Il cortometraggio, diretto da Glen Keane, ripercorre tutta la carriera di Kobe: dal sogno di diventare un giocatore professionista fino ai successi in NBA, sempre “rimanendo quel bambino con i calzettoni tirati su, cestino dei rifiuti nell’angolo, palla in mano, cinque, quattro, tre, due, uno…”

IL TITOLO DEI LAKERS NEL 2020: UNA STAGIONE NEL NOME DI KOBE

E parlando di sceneggiature da Oscar va citata la cavalcata al titolo dei Los Angeles Lakers nella scorsa stagione. Nella stagione più strana di sempre, terminata all’interno della bolla di Orlando per contrastare la pandemia, il percorso dei Lakers è stato netto: hanno imposto il loro gioco in quasi tutte le gare di playoff con il duo James-Davis a trascinare i gialloviola.

Con la vittoria 4-1 in finale contro Miami arriva  il titolo numero 17 della storia della franchigia, rendendola la più vincente di sempre. L’ultima trionfo gialloviola risale al 2010  e la firma era, neanche a dirlo, quella del duo Bryant-Gasol.

Tutti i giocatori dei Lakers hanno dedicato la vittoria alla memoria del Mamba. In particolare, Anthony Davis ha raccontato di aver urlato “Kobe” sul tiro decisivo per la vittoria in gara 2 delle Finali della Western Conference.

Ma anche l’anello consegnato a giocatori e staff dei Lakers ha una dedica a Kobe: ogni giocatore sull’anello ha il proprio nome e numero di maglia e quest’ultimo è avvolto da un serpente, il Black Mamba. In più, la parte superiore dell’anello si può rimuovere e si scopre una sezione in cui sono incise tutte le maglie ritirate dai Lakers, con una particolare enfasi per la 8 e la 24 di Bryant, in viola e su una texture che ricorda un serpente.

 

 

Grazie di tutto Kobe. Ci manchi.

Nicola Bracci

Ha 25 anni. È nato e cresciuto a Pesaro e si è poi trasferito a Milano. Legge e scrive di tematiche sociali e geopolitica per interesse, di sport per passione. Ora al quotidiano Domani.

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