Sono le 20.40 del 14 febbraio 2004, giorno di San Valentino. Dovrebbe essere una serata tranquilla e gioiosa per l’Italia, quella in cui tutte le coppie celebrano il loro amore in una cena romantica. E invece, cronaca e sport entrano nelle case degli italiani per annunciare una drammatica notizia. Marco Pantani, l’idolo ciclistico di un Paese intero, è morto a 34 anni nella sua stanza d’albergo a Rimini.
La fine di un calvario iniziato nel 1999 a Madonna di Campiglio. La conclusione, forse già scritta, di una carriera leggendaria ma eccessivamente influenzata da fattori esterni. Sì, perché Marco Pantani è annoverato tra i ciclisti migliori di sempre, senza tuttavia essere tra i più vincenti. Colpa spesso della malasorte, che tra infortuni, episodi controversi e altri interventi esterni ne hanno segnato indelebilmente l’attività agonistica. Responsabilità anche del “Pirata” stesso, uomo dal carattere fragile e troppo incline alla demoralizzazione che non gli ha permesso di continuare a competere per lungo tempo.
Non era difficile prevedere in gioventù quale direzione avrebbe preso la carriera di Marco: in molti lo vedevano già nell’Olimpo. Fin da subito mostra le stigmate del campione e le eccellenti doti di scalatore che poche altre volte si erano viste prima. Dopo i successi giovanili, Pantani si presenta nei grandi palcoscenici con risultanti incoraggianti: nel 1994, a 24 anni, è secondo al Giro d’Italia, dove colleziona due vittorie di tappa, e terzo al Tour de France, corsa nella quale si aggiudica anche la maglia bianca come miglior giovane.
Marco dovrà tuttavia aspettare il 1998 per ottenere i primi grandi successi. In mezzo, inizia già ad intravedersi la cifra distintiva della sua carriera: la sfortuna. Nel 1995 salta il Giro d’Italia per un incidente in automobile che ne condiziona anche l’andamento al Tour de France e a fine anno è vittima di un episodio che rischia di comprometterne la carriera: durante la Milano-Torino viene investito, insieme ad altri due ciclisti, da un fuoristrada entrato in contromano nel percorso e riporta la frattura di tibia e perone. Riesce a ritornare in sella alla bici, saltando la stagione 1996 per cercare di ritornare competitivo per quella successiva. Si presenta al Giro 1997 da grande favorito, ma è costretto ad abdicare in seguito ad un altro incidente, questa volta a causa di un gatto che gli taglia la strada. Risulta comunque tra i protagonisti del Tour, lottando fino alla fine e concludendo terzo.
Il 1998 è finalmente l’anno della consacrazione, quello in cui conquista la storica doppietta Giro d’Italia-Tour de France. Erano 33 anni (dai tempi di Felice Gimondi) che un italiano non conquistava la tanto ambita maglia gialla. Ormai è l’uomo da battere. E nonostante tutto sembri preparato per l’inizio di una nuova era ciclistica targata Pantani, la sfortuna torna a giocare un ruolo fondamentale nella carriera del Pirata. Il 5 giugno 1999, a due tappe dalla fine del Giro d’Italia e con 5’38’’ di vantaggio sul secondo in classifica, a Pantani viene trovato il valore di ematocrito (presenza di globuli rossi nel sangue) leggermente superiore al limite consentito. Di conseguenza, viene sospeso dal Giro e la vittoria finale va ad Ivan Gotti.
«Mi sono rialzato, dopo tanti infortuni, e sono tornato a correre. Questa volta, però, abbiamo toccato il fondo. Rialzarsi sarà per me molto difficile», dirà Marco poco dopo. E aveva ragione. Perché il Pirata sarebbe ritornato alle corse e anche in una condizione fisica invidiabile. Quello che sarebbe mancato, da lì in poi, sarebbe stato lo strapotere psicologico che ad ogni corsa Pantani imponeva sugli avversari. Quella sensazione che, anche se i rivali si trovavano in forma smagliante, lui ne avesse sempre di più.
Un declino inesorabile che presto sarebbe sfociato nella depressione e nella dipendenza da alcool e droghe. Fino a quel 14 febbraio 2004. L’autopsia rivela che il decesso è stato causato da un edema polmonare e cerebrale, conseguente a un’overdose di cocaina di sei volte superiore alla dose letale, e il caso viene archiviato come suicidio. La scomparsa di Pantani, a causa della determinazione di mamma Tonina e di alcune incongruenze nelle indagini, diventa tuttavia un mistero.
Secondo la madre di Pantani, infatti, il figlio non si sarebbe tolto la vita, bensì sarebbe stato ucciso, partendo dal fatto che il disordine nella stanza di Marco non poteva essere stato causato dal Pirata stesso: erano presenti residui di cibo cinese, che Pantani non mangiava mai, e alcuni lividi sospetti sul corpo del ciclista, tali da far supporre un’aggressione di più persone per forzarlo a bere l’acqua con la cocaina, e difficilmente compatibili invece con una caduta dopo una perdita di coscienza. La specchiera del bagno era a terra ma intatta, il televisore sul pavimento eppure appoggiato dal lato corretto e le padelle, che Marco avrebbe lanciato, planate casualmente dalla parte giusta.
Ma perché qualcuno avrebbe dovuto uccidere Marco Pantani? Per quale motivo un uomo in preda allo sconforto e alla depressione poteva risultare scomodo a qualcuno? La madre Tonina ha sempre sostenuto che fosse stato messo a tacere perché aveva scoperto un segreto di cui non doveva venire a conoscenza, forse legato al doping nel ciclismo o alla sua squalifica, al mondo delle scommesse e a quello della droga.
La risposta arrivò nel 2007 da un “certo” Renato Vallanzasca, il celebre “boss della Comasina” che negli anni ’70 aveva terrorizzato la periferia di Milano. Vallanzasca scrisse una lettera a Tonina, nella quale sosteneva che, in carcere, un habitué delle scommesse clandestine lo avesse avvicinato cinque giorni prima dei fatti di Madonna di Campiglio, consigliandogli di giocare tutto contro Pantani e assicurandogli che non avrebbe vinto il Giro d’Italia.
Ovviamente le parole di uno dei maggiori criminali della storia italiana erano da prendere con le pinze. E invece si scoprì, qualche anno dopo, che non erano prive di fondamento. Nel 2016 – due anni dopo che il caso era stato riaperto, anche se definitivamente archiviato come suicidio nel 2015 – Premium Sport pubblicò un’intercettazione decisiva, nella quale un boss della Camorra, Augusto La Torre, confermò il coinvolgimento della malavita nell’esclusione di Pantani al Giro. «Ricordo molto bene che nell’anno 1999 ho avuto modo di parlare con tre capi clan, in tempi diversi. Non ricordo le date, ma ricordo bene che gli stessi mi dissero che l’esclusione di Marco Pantani era stata voluta da clan operanti su Napoli. Conoscendo le amicizie dei suddetti do per scontato che l’alleanza di Secondigliano possa avere organizzato il tutto. I tre capi clan mi dissero che il banco, se Pantani vinceva, saltava, e la Camorra avrebbe dovuto pagare diversi miliardi in scommesse clandestine».
La Camorra, dunque, avrebbe costretto i medici del Giro a deplasmare il sangue di Pantani, in modo tale che i suoi valori, nei limiti imposti dal regolamento internazionale dell’UCI, risultassero fuori norma. Questo fatto completa così il quadro di quello che successe a Madonna di Campiglio: è vero che a Pantani fu trovato il valore di ematocrito più alto del consentito, ma è altrettanto vero che non risultò positivo ad alcun controllo antidoping, motivo per il quale non ricevette nessuna squalifica al di fuori della sospensione a scopo precauzionale dal Giro d’Italia 1999. L’obiettivo, dunque, era quello di forzare l’esclusione del Pirata dalla corsa alla maglia rosa, senza tuttavia farlo cadere in sanzioni pesanti.
Un fatto che, negli obiettivi della malavita, avrebbe significato un grosso guadagno dal giro delle scommesse clandestine, ma che invece ha involontariamente segnato la vita di Pantani. La sua scomparsa rimane ancora oggi un mistero. Forse è vero quello che diceva la madre Tonina: Marco aveva scoperto una verità inconfessabile sulla sua squalifica del ’99 e fu messo a tacere. O forse, il Pirata era semplicemente naufragato nel mare sconfinato della depressione e aveva deciso di farla finita. In ogni caso, il giorno della sua morte non rappresenta una pura e semplice coincidenza. Come Valentino (ucciso per aver celebrato il matrimonio tra una cristiana e un legionario romano), anche Pantani può essere considerato un martire. Un uomo che è stato costretto ad abbandonare tutto a causa del cinismo e dell’insensibilità di chi la vita gliel’ha rovinata.
Marco Pantani rimane ancora oggi uno degli sportivi italiani più amati dal Dopoguerra. Un personaggio in grado di far appassionare una generazione intera al ciclismo e di tenere incollati al televisore milioni di italiani, in trepidante attesa di assistere ad uno dei suoi tanto temuti dagli avversari quanto incontenibili allunghi.