Il 4 aprile del 1968 è una data fondamentale nella storia dei diritti civili. A Memphis, Tennessee, il pastore Martin Luther King Jr. viene ucciso da un colpo di fucile alla testa. L’era di internet e dei social media è ancora lontana, ma la notizia impiega comunque poco a diffondersi negli Stati Uniti e nel resto del mondo.
In quello stesso momento i playoff Nba sono in pieno svolgimento. Sulla costa orientale i Philadelphia 76ers e i Boston Celtics si preparano a scendere in campo per gara uno delle finali di conference. A meno di 24 ore dalla palla a due l’assassinio di Luther King irrompe come un uragano nella sacralità del pre-gara. Wilt Chamberlain e Bill Russell sono le stelle di quelle squadre, probabilmente i giocatori simbolo della loro generazione, due afroamericani che scrivono pagine illustri di pallacanestro a suon di duelli sotto i tabelloni. Tra i due avviene una telefonata, l’uccisione dell’uomo simbolo nella lotta per i diritti civili è un fatto troppo grande per essere ignorato. Non si tratta solo di due stelle dello sport, ma di due icone dell’orgoglio nero che sentono scorrere nelle vene il sostegno di una minoranza, ne percepiscono l’importanza e ne sostengono la responsabilità. Alla fine quella partita si gioca, ironia del destino, nella città dell’amore fraterno, davanti a quasi 15.000 spettatori. Due giorni più tardi il presidente americano Lyndon Johnson proclama il lutto nazionale, gara 2 di quella finale di Conference viene posticipata.
26 agosto 2020. Sono passati solo un paio di giorni da quando nella cittadina di Kenosha, nel Wisconsin, l’afroamericano Jacob Blake è stato fermato dalla polizia e colpito con sette colpi di pistola alla schiena. Nella bolla di Disney World, Milwaukee Bucks e Orlando Magic si preparano a scendere in campo per gara 5 del primo turno di playoff. A poche ore dalla gara, negli spogliatoi tira una brutta aria. Fin dalla ripresa della stagione la Nba ha palesato la propria posizione sui diritti civili: la frase black lives matter capeggia ovunque, sulle maglie dei giocatori compaiono scritte di solidarietà a ogni partita. Quell’ennesimo episodio macchia come fango il messaggio d’uguaglianza che la lega americana ha scelto con forza di portare avanti.
George Hill è uno dei veterani del gruppo, un elemento cardine all’interno dei Bucks, non solo dal punto di vista tecnico. È proprio lui a scoccare la scintilla: «E se non giocassimo?». La proposta trova l’accoglimento dei compagni, il rituale pre-partita si trasforma in una richiesta di contatto con il procuratore generale del Wisconsin perché sia resa giustizia a Jacob Blake. Trascorrono diverse ore, gli Orlando Magic sono all’oscuro della decisione presa dagli avversari, ma quando non li vedono presentarsi per il riscaldamento intuiscono che sta succedendo qualcosa e, una volta messi al corrente di ciò che sta accadendo, scelgono di unirsi alla causa. La protesta ha ufficialmente inizio: vengono annullate anche le altre tre gare in programma, si fermano anche la Wnba e il Southern Western Open di tennis. Anche in Mlb, la lega professionistica del baseball, diverse partite non vengono disputate. Siamo di fronte a un avvenimento di portata storica che tracima per naturalezza i confini dello sport.
Già al termine di gara-4 tra Bucks e Magic, e a poche ore dal caso Blake, George Hill aveva dato segni di cedimento, definendo un errore trasferirsi nella bolla di Orlando, perché quella decisione «ha distratto l’opinione pubblica sul vero centro dell’attenzione e sui veri problemi». Poco dopo, in seguito a gara-4 tra gli Houston Rockets e gli Oklahoma City Thunder, anche Chris Paul – tra i cestisti più rappresentativi dell’ultima decade, nonché presidente del sindacato dei giocatori – aveva detto la sua su quanto successo a Kenosha: «Nonostante abbiamo deciso di venire qui a giocare e stiamo facendo una campagna contro l’odio razziale e l’ingiustizia sociale, questo genere di cose continuano ancora ad imperversare. Non va bene per niente. Non è giusto».
La decisione dei Milwaukee Bucks coglie di sorpresa l’intera Lega, ma trova subito consenso tra i colleghi. Se le iniziative anti-razzismo finora adottate dall’Nba non hanno avuto alcun effetto, allora forse c’è bisogno di un messaggio ancora più forte e di scelte drastiche.
FUCK THIS MAN!!!! WE DEMAND CHANGE. SICK OF IT
— LeBron James (@KingJames) August 26, 2020
Ma resta ancora un nodo fondamentale da sciogliere: sospendere i match in programma il 26 e il 27 agosto rimarrà un avvertimento o sarà l’anticipazione di una chiusura anticipata della stagione? Giocatori e allenatori ne hanno discusso in un meeting notturno. Lakers e Clippers, capitanate da LeBron James e Kawhi Leonard, sono favorevoli alla soluzione più estrema, ovvero l’interruzione delle competizioni, mentre le altre franchigie non avrebbero espresso lo stesso parere. Al momento del primo voto, che ha visto le due squadre di Los Angeles in minoranza, i cestisti contrari alla ripresa sarebbero usciti sbattendo la porta. Il sindacato dei giocatori ha anche ricordato quanto sarebbero pesanti le ripercussioni economiche qualora si decidesse di non riprendere, ma il fatto che due tra le candidate principali al titolo e due tra i giocatori più influenti della Lega intendano fermarsi potrebbe avere un certo effetto sugli altri atleti.
Giocatori, allenatori e proprietari discuteranno ancora della faccenda e fino a che non sarà stata presa una decisione, i playoff rimarranno fermi. Di certo c’è solo la consapevolezza che il 26 agosto 2020 rimarrà una data impressa nella storia, non solo dello sport, ma anche dell’umanità. Perché è vero che per gli atleti professionisti lo sport è la loro vita e il loro lavoro, ma è altrettanto vero che esistono terreni e campi sui quali ogni giorno vengono disputate partite più importanti.