Non è più il momento di aspettare, è il momento di agire. Sembra essere questo il tema principale dell’incontro che si è svolto domenica 1 dicembre alla Triennale di Milano, dal titolo “Il calcio è donna (Finalmente!)”, durante il festival annuale organizzato da Rivista Studio.
«Mi dicevano che il calcio non è uno sport per signorine – racconta Francesca Vitale, veterana del Milan -Ora è una frase che sento meno. Io ci tengo alla mia femminilità e come me tante altre calciatrici. Ci trucchiamo per giocare, non rinunciamo al nostro essere donne, è una cosa personale. Adesso che il calcio femminile è cresciuto e le persone sanno che esistiamo ci vedono come atlete, finalmente».
In Italia pian piano si sta attuando un cambiamento culturale nei confronti dello sport femminile: «È cambiato tutto – conferma Carolina Morace, allenatrice ed ex calciatrice italiana -, il papà tifoso porta la bambina nella squadra di cui è sostenitore, non gli interessa più se il calcio è considerato uno sport da uomini».
Il Mondiale femminile in Francia ci ha insegnato che anche le atlete azzurre meritano considerazione, che con allenamento e sacrificio si può arrivare in alto e che, anche le donne, possono ottenere risultati sportivi importanti. Il calcio, insomma, non è più cosa da maschietti. «La cosa importante è mantenere quello che si è riuscito a creare fino adesso – dice sicura Regina Baresi, capitano dell’Inter -. È importante tenere alto l’interesse per questo sport. Spero che le bambine che amano il calcio continuino a crescere a livello numerico e che si riescano a fare dei passi avanti». Quello del calcio femminile è però un mondo fatto di pregiudizi: «All’inizio i miei genitori non volevano che giocassi a causa di tutti quei preconcetti di cui si parla sempre. Mi hanno iscritta a tennis e poi a tanti altri sport, ma alla fine la mia passione era talmente grande che li ho convinti. È stata una vittoria sotto questo punto di vista».
«Quando ero alle elementari le bambine mi prendevano in giro e mi guardavano male perché giocavo con i maschi. Avevo sempre il pallone tra i piedi e me ne tornavo a casa sporca di fango. Vorrei che oggi non fosse più così, che le bambine potessero esprimersi nello sport che le appassiona senza doversi giustificare» conferma Francesca.
Nonostante i successi delle azzurre, nonostante Sky stia lavorando per far conoscere l’universo del calcio femminile e nonostante i numeri testimonino il crescente interesse per questo settore, ancora permane un problema fondamentale da risolvere, un tabù di cui si incomincia a parlare: la questione del professionismo. In Italia le atlete donne sono tutte considerate dilettanti. È assurdo pensare che – solo per fare alcuni esempi – una calciatrice della nazionale italiana o una campionessa di sci pluri medagliata siano definite professioniste dal pubblico ma dilettanti da un punto di vista giuridico.
Secondo la definizione del Vocabolario Treccani, dilettante è «chi coltiva un’arte, una scienza, uno sport non per professione, né per lucro ma per piacere proprio». La verità dei fatti però è un’altra. In Italia sono sempre di più le atlete che fanno di una disciplina sportiva la propria professione. Un vero e proprio lavoro che spesso non lascia il tempo ad altre attività.
«È assurdo che le donne non siano professioniste – afferma la calciatrice nerazzurra -, dedichiamo agli allenamenti tante ore e tanta fatica. È un vero lavoro a livello di impegno, ma non siamo riconosciute come professioniste».
Secondo Carolina Morace è importante presentare «un buon prodotto tecnico tattico per riuscire a catalizzare l’attenzione della gente sul calcio femminile. Quando si parla di professionismo – continua l’allenatrice – si pensa al calcio milionario maschile, ma non è questo. Riconoscere un’atleta come professionista significa assicurarle un’assistenza previdenziale. Per le donne, come per gli uomini, il calcio assicura una carriera breve. È giusto che anche le donne abbiano la possibilità di vivere di calcio».
In Italia esiste un tetto salariale massimo per le giocatrici, ma non uno minimo. La stessa cosa accade in Spagna dove, recentemente, le atlete hanno scioperato per difendere i propri diritti e chiedere a gran voce di essere riconosciute come professioniste. «Le ragazze vogliono fare di questo sport il proprio lavoro, non vogliono diventare milionarie – specifica Morace -. Bisogna dare garanzie alle giocatrici. In Italia Non c’è un’allenatrice donna che abbia diritto alla pensione e io le ginocchia le ho frantumate tanto quanto in uomo».
Un argomento delicato che sembra proiettarci in un’altra epoca. Nel calcio le donne non sono tutelate e devono lottare per conquistare quei diritti che per un uomo sono scontati. «Sono obiettivi che possono portare alla svolta – dice Francesca – Già allenarci da professioniste o avere strutture da professioniste sono cose importanti perché ti permettono di affrontare la preparazione in un altro modo. Io lotto per essere riconosciuta come professionista, ma non solo per me o per le mie compagne, ma anche per tutte quelle bambine che intraprenderanno questa professione, perché di questo si tratta, e che un giorno magari potranno avere di più».
«Per il professionismo occorre la sostenibilità economica – afferma ancora Carolina -, ma lo stesso vale per la Serie C maschile. Perché per tre categorie maschili esiste la sostenibilità e invece non c’è per una categoria femminile? Semplice, perché in Italia gli uomini ricoprono qualunque posto di potere».
È necessario dunque andare oltre. L’Italia deve stare al passo con gli altri Paesi e riconoscere i diritti delle atlete. D’altronde quando Guido Ara, mediano della Pro Vercelli, affermava che «Il calcio non è uno sport per signorine» erano gli anni ’80. Ora siamo nel 2019. Forse è il caso davvero di fare un passo in avanti.