Entrare a stretto contatto con il DNA di una storia. Risalire alla radice di uno spaccato di vita, raccontare un personaggio a partire dal mondo che ha vissuto, la società che ha respirato e le influenze culturali che ne hanno, in un modo o nell’altro, incanalato il percorso.
Federico Buffa non ama festeggiare i compleanni. E’ nato nell’anno del maiale, l’ultimo segno dello zodiaco cinese che ricorre ogni dodici anni. Per ogni “maiale” una fase della vita, un cammino che nel tempo si è tradotto in traguardi professionali.
All’Università IULM, nella Sala dei 146, il tema dell’incontro con gli studenti è lo “Storytelling, come fare cultura con lo sport”. Il docente di Sociologia della Comunicazione, Mauro Ferraresi, apre le danze rivolgendogli una semplice domanda. “Chi è Federico Buffa?”.
Questione legittima, specie se rivolta a uno che ha cominciato a occuparsi di cronaca sportiva nelle radio private, per poi proseguire in quella che al tempo si chiamava Tele+, la tv privata che oggi definisce bonariamente come “la zia” di Sky. Nel frattempo si è laureato in giurisprudenza ed è diventato avvocato, professione che non lo ha mai realmente attratto. Già, perché lui ama raccontare e soprattutto ama le storie che racconta. Si ritiene privilegiato nel poter esercitare un mestiere che svolgerebbe anche gratis.
Una volta, durante un soggiorno in India, si era sottoposto a un test in grado di rilevare la natura e il karma di una persona. Dal referto era venuta fuori una smisurata capacità nel godersi ciò che ama. Un indice addirittura del 98%. Ed è proprio questo che lo fa sentire un privilegiato: ciò che ama, ciò che lo inebria fino a sfiorare il 100% del suo piacere, è anche la sua forma di sostentamento.
Domandarsi “chi è Federico Buffa” è altresì legittimo perchè a ogni maiale, o in prossimità di esso, decide di tirare fuori un sogno dal cassetto e tramutarlo in realtà. Tantissimi anni trascorsi al fianco di Flavio Tranquillo a trasmettere il pianeta NBA a chi vive al di qua dell’oceano. Le telecronache del duo hanno, a loro modo, dato il là a una piccola rivoluzione nel modo di descrivere un evento sportivo. Una comunità di adepti, una moltitudine di aficionados che negli anni, anche grazie alle loro cronache, ha imparato ad amare il basket o ad amarlo, se possibile, ancora di più.
Poi quella voce interiore, quella voglia di conoscere, sviscerare una storia, calarsi teatralmente in essa e trasmetterla a chi sta dall’altro lato dell’etere. Il “ritiro” dalle telecronache, un proscenio tutto suo in cui snocciola il frutto di mesi e mesi di lavoro. Archivi, libri, viaggi, interviste, aneddoti. Tutto ciò che serve per guardare negli occhi lo spettatore attraverso il vetro di una telecamera e offrirgli una narrazione a tutto tondo.
L’incontro presso la IULM, moderato anche dal professore di Psicologia dei Consumi e Neuromarketing Vincenzo Russo, arriva alla sua questione chiave quando sopraggiunge una semplice domanda: perché in Italia la narrazione sportiva è tanto sottovalutata? Perchè l’America, da questo punto di vista, è così lontana?
Una vera risposta probabilmente non c’è, ma Buffa ricorre alla recente storia italiana per fornire una chiave d’interpretazione: «Gianni Clerici, una delle più grandi firme giornalistiche del tennis mondiale, mi ha raccontato che lui e Gianni Brera avevano sempre sognato di scrivere un grande romanzo privo di attinenze con il mondo dello sport. Un sogno che si era tradotto in veri e propri tentativi. Quando uscirono i loro romanzi Umberto Eco li umiliò esternando quello che è rimasto sempre il suo pensiero: voi continuate a raccontare le vostre cose, che per la letteratura, se non vi dispiace, c’è dell’altro in questo paese».
Le parole e il pensiero di quello che è stato uno dei più grandi intellettuali del ‘900 italiano, spiegano il nostro lato dell’arcobaleno. Una civiltà millenaria, imperi, rinascimenti e rinascite, fonti d’ispirazione per uomini che hanno dato vita a una produzione letteraria che vanta pochi eguali. Tanto bastava a scavare una linea di demarcazione netta tra chi, in quegli anni, si occupava di scrivere romanzi e chi, invece, di mestiere dava notizia di eventi agonistici.
Sull’altra sponda dell’arcobaleno e dell’oceano, invece, l’America e la sua storia troppo breve per vantare una mitologia che sfocia nell’antichità. La loro epica è puramente novecentesca, si traduce nelle produzioni di Hollywood e, appunto, nello sport. Federico Buffa gli Stati Uniti li ha vissuti in lungo e in largo, quel modo di raccontare gli atleti e il loro mondo ha imparato a conoscerlo, ha capito come fondere tra loro tutti gli elementi.
Nella sua visione, quando parli di sport non ti riferisci solo a una partita, un torneo o una singola azione di gioco. Tutto si incastra in un’epoca precisa, con le sue suggestioni culturali e politiche, coi suoi temi etici morali a influenzare ed essere a loro volta influenzati da un campione, da una squadra, da un allenatore. Come Arpad Weisz, l’allenatore di calcio ungherese che muore nel campo di concentramento di Auschwitz, o come Muhammad Alì, divenuto un simbolo dell’orgoglio nero in America.
Questo è lo Storytelling per Federico Buffa, che va in giro con con un cellulare del secondo dopoguerra e che, se deve scrivere qualcosa a qualcuno lo fa con la penna, possibilmente su una carta di buona qualità, che a suo modo di vedere stimola la capacità creativa.
Lontano dai social e dai media moderni, Buffa ispira tanti giovani che vorrebbero diventare come lui. Ragazzi che sognano a occhi aperti a cui tramanda un semplice quanto prezioso consiglio: non perdete mai di vista la vostra originalità.