Che dalla finestra di casa sua si scorgessero le due torri di Bologna, la distesa sterminata di Manhattan Beach o lo Skyline di San Antonio, la carriera di Ettore Messina ha sempre ruotato intorno a un’unica costante: la competenza, affinata col tempo, nel saper assemblare non un semplice team di pallacanestro, ma un gruppo in cui viene misurato prima il valore dell’uomo e poi quello del giocatore.
Cresciuto sotto l’ala di Tonino Zorzi e Alberto Bucci, veri padri putativi dal punto di vista tecnico, Messina ha percorso la sua vita da allenatore ad ampio raggio. Un cammino partito dalle giovanili di Mestre e che oggi prosegue sotto i colori dell’Olimpia Milano. Nel mezzo una cineteca di ricordi, i successi in Eurolega con la Virtus Bologna di Danilović, Nesterovic e Rigaudeau, il bis con le V nere insieme a Ginobili, Jaric e Smodiš. Vincente a Treviso e in Russia, per due anni sul tetto d’Europa con il CSKA Mosca. Dal 1993 al 1997 e dal 2015 al 2017 due parentesi in nazionale, l’ultima terminata all’indomani dell’eliminazione ai quarti di finale degli Europei.
Al di là dell’Atlantico, in veste di assistente, ha messo alla prova le sue competenze al fianco di Mike Brown a Los Angeles e di Gregg Popovich a San Antonio. Dopo cinque stagioni in NBA ha fatto ritorno in patria, dove ha ritrovato un movimento cestistico che ancora scricchiola sulla via della coesione.
Coach, il presidente della Lega Basket Umberto Gandini auspica una Serie A d’élite, anche solo di 14 squadre ma tutte con una solida situazione finanziaria. Lei come vede la situazione?
Questo è un concetto che va al di là della pallacanestro, perché se esistesse un sistema di condivisione saremmo realmente in grado di aiutare le squadre che sono più in difficoltà. Bisogna però saper distinguere tra le società che si sono messe in una brutta situazione a causa di comportamenti poco corretti e chi, invece, ha sempre agito nel rispetto delle regole ma che adesso, complice l’emergenza sanitaria, vive uno stato di crisi per problemi legati agli sponsor, all’assenza di pubblico o altro. Devo dire che al momento non ho visto grande compattezza tra le squadre, ma Gandini sta esercitando una buona leadership riuscendo a convogliare 17 filosofie dissimili tra loro verso un unico modo di pensare.
Considerato questo aspetto, cosa l’ha spinta, dopo diversi anni, a tornare in Italia?
Quando ero ragazzino c’era un medico, il professor Barnard, che fece il primo trapianto di cuore in Sud Africa. Ecco, io per cinque anni mi sono sentito come l’aiuto primario di Barnard, nel senso che ho lavorato a fianco dell’allenatore di gran lunga più bravo di tutti (Popovich, nda). Non solo a livello tecnico e umano, ma anche per la visione che ha della pallacanestro. Dopo cinque anni mi è venuta voglia di mettere a frutto le cose imparate e tornare a fare il capo allenatore, ma in NBA, pur essendoci andato vicino, non ho avuto possibilità. L’offerta più allettante è arrivata da Milano, che mi ha garantito la possibilità di avere sempre l’ultima parola sulla scelta dei giocatori e dello staff. Non volevo correre il rischio di sacrificare i principi organizzativi in cui credo per andare incontro alle esigenze di un teorico grande giocatore.
Parlando di grandi giocatori, lei ha lavorato con Kobe Bryant e Tim Duncan. Qual era la differenza tra i due nell’esercitare la propria leadership?
Kobe amava sfidare e provocare i compagni di squadra. Era convinto che questo li spingesse a superare i propri limiti. Tim era diverso, a lui bastava alzare un sopracciglio per farti capire che quello che stavi facendo era sbagliato, riusciva comunque a mettere pressione sui compagni senza l’aggressività di Kobe. Nessuno dei due però si limitava alla parte tecnica, avevano una presenza assoluta anche all’interno dello spogliatoio. Kobe era più come il filosofo Eraclito, per lui le situazioni vincenti nascevano dall’incontro e dallo scontro, mentre Tim era convinto che un ambiente caldo e meno conflittuale fosse propedeutico al raggiungimento dei risultati.
Al termine della sua esperienza in NBA al fianco di Mike Brown prima e Gregg Popovich poi, c’è un aspetto tecnico, umano o gestionale che porta con sé nel suo modo di allenare oggi?
Innanzitutto uno relazionale. Prima non mi intromettevo nella vita dei giocatori fuori dal campo, adesso ho imparato che per le nuove generazioni è importante mantenere un contatto, magari anche tramite un gruppo whatsapp. La seconda cosa è l’attenzione ai carichi di lavoro. In Europa si allenano tanto i giocatori, anche con una doppia seduta giornaliera. Ora che, tra campionato e coppe, il calendario di una squadra europea si avvicina a quello NBA, è fondamentale gestire il recupero fisico, il riposo è diventato parte integrante dell’allenamento. Se lavori con persone stanche non fai che attirare ogni genere di infortunio. Dal punto di vista tecnico vorrei riuscire a far giocare più velocemente la mia squadra, visto che oggi il basket FIBA è mediamente più lento rispetto a quello NBA.
A proposito di aspetti tecnici, ormai il tiro da tre punti ha assunto un ruolo centrale nella pallacanestro moderna.
Ai ritmi di oggi è impensabile giocare con due lunghi veri, hai sempre bisogno di mantenere le spaziature con quattro giocatori sul perimetro. In proporzione il tiro da tre diventerà più importante in Europa che in NBA perché da noi non esiste la regola dei tre secondi difensivi, quindi è più facile difendere a zona. Sono convinto che nei prossimi anni il tiro da fuori ricoprirà sempre più importanza nella pallacanestro europea.
Da dove deve partire il futuro della nostra pallacanestro?
In un paese con 60 milioni di abitanti non puoi avere 17/18 società a livello professionistico, suddividere equamente le risorse diventa difficile. Poi bisogna ripensare il sistema contributivo, ma per prima cosa dobbiamo organizzarci dalla base a partire dalle giovanili. È dai giovani che passa il nostro futuro.