Il 12 marzo 2020 Rudy Gobert, giocatore francese degli Utah Jazz, risulta positivo al test per il Covid-19. Quello stesso giorno, il commissioner della NBA Adam Silver prende una decisione immediata, un unicum nella storia della lega professionistica americana: stagione sospesa. Almeno un mese di stop, in attesa di conoscere l’impatto e gli sviluppi dell’epidemia che proprio in quei giorni comincia ad affacciarsi preponderante sul territorio americano, con una concentrazione particolare nello stato di New York. Nei giorni immediatamente successivi alla sospensione altri giocatori contraggono il virus, a dimostrazione di come il SARS-CoV-2 fosse entrato in circolo già da diverso tempo anche negli Stati Uniti. A cominciare da quel momento la navigazione prosegue a vista, 30 giorni non si rivelano sufficienti a prendere decisioni definitive, anche perché, nel frattempo, il numero dei contagi negli states assume proporzioni colossali. Il Coronavirus si è insinuato in sordina tra le maglie dell’occidente, favorito da una sottovalutazione iniziale del fenomeno. Tutti gli ingranaggi, un po’ alla volta, si sono fermati, compreso quel moto perpetuo che fa capo alla National Basketball Association.
E non si parla di un blocco a buon mercato, specie dopo un’occhiata all’ultimo ranking stilato da Forbes sui campionati professionistici più ricchi al mondo. La NBA fa la parte del leone, un appeal internazionale con pochi eguali, un Re Mida dello sport che tra biglietti, diritti tv, merchandising ed eventi internazionali vanta un giro d’affari che nell’ultima stagione ha registrato un guadagno netto di 8 miliardi di dollari. L’introduzione degli sponsor sulle maglie, a partire dalla stagione 2017/2018, ha poi ulteriormente capitalizzato il giro d’affari della lega: per dirne una, la sola Nike, per apporre il suo “swoosh” in bella mostra sulle divise dei giocatori versa nelle casse della NBA 125 milioni di dollari l’anno.
Un equilibrio molto delicato che, oltre alla situazione a livello sanitario, si destreggia tra l’aspetto tecnico e quello economico. Ad aprile, Alessandro Mamoli, giornalista e telecronista NBA per Sky Sport, ci aveva rivelato il possibile nuovo scenario che si sarebbe delineato per salvare la stagione: «A oggi l’ipotesi più plausibile è quella di Disney World in Florida. È una soluzione plausibile perché, se da una parte non puoi controllare con precisione chi entra e chi esce da una città come Las Vegas, in una struttura come quella invece sì».
L’oggetto della rivelazione era quella che nei mesi successivi sarebbe stata rinominata ‘la bolla di Orlando’. Un progetto ambizioso e da realizzare in breve tempo, specie per evitare la cancellazione della stagione o compromettere in maniera definitiva la calendarizzazione di quelle a venire. «Per creare queste condizioni devi effettuare uno screening ai giocatori, allo staff tecnico, ai medici, ai massaggiatori e ai fisioterapisti prima di farli accedere alle strutture – aveva sottolineato Mamoli – per poi tenerli costantemente monitorati una volta dentro». L’unica alternativa valida, in grado di garantire un compimento rapido ed efficace del piano previsto dalla Lega, si è rivelata quella relativa al gigantesco parco divertimenti della Florida. Lo stesso Mamoli ad aprile aveva esposto le motivazioni in favore di quella che, ai tempi, era ancora solo un’ipotesi: «Bisogna tenere presente che la proprietà di Disney è la stessa di Espn e di Abc, che è una delle due televisioni a detenere i diritti, tra cui quelli delle finali, quindi è normale che tendano a darsi una mano a vicenda. Disney World dispone già di strutture per l’intrattenimento sportivo, ogni anno ospita anche dei tornei a livello di college. I tanti alberghi presenti nell’area del parco sono perfettamente in grado di ospitare le squadre, così come tutti gli impianti sono già cablati per la trasmissione televisiva».
Il bilancio della bolla e gli accordi sulla stagione 2020/21
Oggi sappiamo come è andata, la lega americana ha radunato 22 squadre su 30 nella ‘bolla’, escludendo solo quelle che prima dell’interruzione di marzo erano troppo indietro in classifica per poter ambire a un posto dei playoff. La stagione Nba si è conclusa a metà ottobre con le Finals disputate tra Miami Heat e Lakers vinte da questi ultimi. L’operazione nel suo complesso ha permesso di mettere in salvo quasi un miliardo e mezzo di dollari, pari alla cifra che la lega avrebbe visto evaporare in caso di stop definitivo. Lo sforzo che invece la Nba ha prodotto allo scopo di tenere in vita la giostra per quasi tre mesi e mezzo si aggira sui 190 milioni. Giocare a porte chiuse ha ovviamente comportato un calo degli introiti del 40%, una percentuale che nel breve periodo ha inciso soprattutto sul salary cap delle squadre, con cifre ben lontane dal tetto di 109 milioni della scorsa stagione. Dal punto di vista sanitario, la macchina messa in piedi da Adam Silver si è rivelata perfetta: nessun giocatore contagiato all’interno della bolla, un indubbio successo dal punto di vista organizzativo.
Messa in archivio la turbolenta annata 2019/20 si è cominciato a discutere su quando e come dare il via alla nuova stagione, un iter obbligato che ha ridotto il cerchio a due sole possibilità. Sia i vertici della Nba che i grandi network televisivi hanno puntato tutte le fish su una partenza il 22 dicembre. L’ipotesi è stata inizialmente osteggiata da buona parte dei giocatori e dei membri della Nbpa, l’associazione che agisce a tutela dei diritti degli atleti. Natale sì o Natale no? Questione semplice solo in apparenza. La messa in onda dei christmas games frutta ogni anno centinaia di milioni di dollari, una somma che in questo momento storico alla lega americana servirebbe come il pane, specie considerato il flop delle ultime finals, che hanno registrato uno share da minimi storici. Alla fine è stata proprio quest’ipotesi a prevalere: le partite di regular season scenderanno da 82 a 72, con una riduzione del 25% dei viaggi e quindi minori possibilità di contagi da Covid-19. La pausa per l’All Star Game avrà luogo a inizio marzo anziché a febbraio tradizione vorrebbe, sempre che per allora sussistano le condizioni di sicurezza necessarie all’organizzazione dell’evento. Al termine della stagione regolare si giocherà un “play-in”, una sorta di mini torneo tra le squadre classificate dal il 7º al 10º posto in ciascuna delle due Conference, una soluzione scelta per decidere le ultime 4 partecipanti ai playoff. Con un inizio il 22 dicembre la stagione si concluderà al più tardi il 22 luglio, quasi a ridosso delle Olimpiadi di Tokyo. La coincidenza permetterà quasi sicuramente ai giocatori di prendere parte ai Giochi, per poi poter poi cominciare l’annata successiva rispettando il calendario tradizionale, con la prima palla a due tra fine ottobre e inizio novembre 2021.
L’alternativa scartata
Il Martin Luther King Day, il giorno prediletto da molti giocatori che avrebbero gradito trascorrere il Natale in famiglia, per poi presentarsi il 28 dicembre ai rispettivi training camp. Una data carica di significato, vista la dedizione palesata dai giocatori Nba alla causa del black lives matter. Adottando questa soluzione le partite di regular season sarebbero scese a 60, mentre la percentuale sulla riduzione dei viaggi sarebbe rimasta del 25%.
La pausa per l’all star game sarebbe slittata al 9 aprile 2021, mentre la regular season si sarebbe conclusa non prima della fine di giugno. Questo avrebbe comportato uno sviluppo dei playoff tra i mesi di luglio e agosto, una soluzione copia carbone della stagione scorsa che però, in questo caso, avrebbe precluso ai giocatori la partecipazione a Tokyo 2021. Terminare la post-season a estate inoltrata avrebbe inoltre complicato anche il piano del commissioner Adam Silver di riprendere col calendario tradizionale a partire dall’annata 2021/22. Questa ipotesi alla fine non ha preso piede soprattutto per questi motivi, primo tra tutti salvaguardare l’enorme giro economico dopo le perdite registrate nella scorsa stagione e quelle previste in quella che sta per cominciare, con le partite che si giocheranno senza pubblico fino a quando non sussisteranno le condizioni per far tornare la gente negli impianti di gioco.
Il caso italiano: un parere medico
Come evidente, lo sport professionistico trascina dietro sé una mole enorme di interessi economici coi quali convivere. Sono proprio quegli interessi a spingere colossi come la NBA a vagliare ogni soluzione possibile per salvare il salvabile, specie a livello di sponsor e diritti televisivi. Il giro economico del basket italiano non è paragonabile alla macchina da soldi della lega a stelle e strisce, tanto è vero che i vertici della Fip non hanno esitato a concludere anticipatamente tutti i campionati. L’ipotesi di mettere in piedi una bolla simile a quella di Orlando non è stata nemmeno presa in considerazione, un progetto troppo esoso rispetto alla mole d’affari da salvare. Insomma, il gioco non valeva la candela. A conti fatti rimane però quella sanitaria l’emergenza più grande a cui far fronte, il tunnel più lungo da attraversare prima di rivedere la luce.
Il SARS-CoV-2 ha colto il mondo impreparato, indifeso di fronte alla sua letalità e in perenne ritardo sul contenimento della sua proliferazione a livello globale. Una battaglia le cui arene risiedono negli ospedali e nei laboratori di ricerca, una corsa contro il tempo che separa un’esistenza fatta di restrizioni e distanze sociali da una vita normale, quella a cui eravamo abituati nell’era pre-pandemia. E il mondo dello sport, con la sua routine fatta di allenamenti, riunioni tecniche e partite, non rappresenta certo un’eccezione nella frenetica corsa alla normalità. Il quadro attuale in Italia è costellato da tanti punti interrogativi, su alcuni di questi avevamo interpellato il dottor Paolo Patta, medico chirurgo specializzato in Medicina dello Sport, già responsabile nazionale della Commissione Sanitaria Antidoping della FIP tra il 1988 e il 2004: «Quel che è certo è che cambieranno in modo permanente le procedure a livello di screening. Immagino per esempio una visita spirometrica più completa rispetto a prima, nel rispetto sia degli interessi dell’atleta che di quelli dei medici. Le squadre professionistiche sono composte da atleti di diverse parti del mondo, ognuno arriva con un quadro clinico derivante dagli studi batteriologici del suo paese, non sufficiente a garantirne una tranquilla integrazione coi compagni di squadra».
Lba, Legadue e campionati minori
Sia la serie A maschile che quella femminile sono ripartite, così come la A2, sebbene solo alla fine di novembre. Il basket italiano si è rimesso in moto legandosi a un protocollo condiviso, test rapidi entro le 48 ore precedenti alla partita, isolamento dei casi positivi e tamponi immediati per compagni di squadra e staff tecnico. Gli atleti che contraggono il virus, prima di tornare sul parquet devono non solo certificare la propria negatività, ma anche sottoporsi a una visita medica di idoneità all’attività agonistica. A novembre l’Olimpia Milano ha registrato un numero talmente alto di positivi all’interno del gruppo squadra da dover sospendere la propria attività. Diverse partite di Eurolega sono state rinviate e si va avanti a porte chiuse, almeno fino a quando non cominceranno le vaccinazioni e la pericolosità del virus non sarà attenuata.
Il presidente della Fip Sardegna
Lo sport a tutti i livelli non professionistici invece si è fermato. Ancora oggi è impossibile esprimere una data certa per il ritorno alle attività, un dubbio che ci ha espresso anche Bruno Perra, il presidente della Fip Sardegna giunto al suo sesto mandato: «Navighiamo a vista, anzi più che a vista al buio. Speriamo il prima possibile di poter concedere alle squadre almeno di potersi allenare, magari a partire da metà gennaio. Nel frattempo la Federazione ci è venuta incontro alleggerendo dei costi che altrimenti avrebbero tagliato le gambe alle società. Anche il Coni a livello locale ci ha dato una mano, sono agevolazioni che ci permetteranno di ripartire al meglio quando sarà il momento». Il percorso di sopravvivenza delle società che campano di contributi e piccoli sponsor passa anche dal sostegno territoriale. In Sardegna è stato attivato un inter all’inizio della scorsa estate, è lo stesso Perra a rimarcarne l’importanza: «La Regione ci ha dato una grande mano con la delibera dello scorso 30 giugno, che ha messo in circolo oltre 5 milioni di euro finalizzati ad aiutare le leghe minori. Probabilmente ci ha aiutato il fatto di essere una regione autonoma».
Un parere tecnico
C’è poi chi dalla pallacanestro e dall’attività sportiva trae gran parte degli introiti che gli consentono di andare avanti. È il caso degli allenatori di minibasket e delle squadre di serie C, D e promozione. Uno di questi è Tommaso Lazzaroni, allenatore delle squadre giovanili della Calderara Pallacanestro, a Bologna, basket city per eccellenza. «Per me uno dei problemi principali – ci rivela – è che da giugno a ottobre sono stati emessi troppi decreti e non siamo riusciti a capire né come né quando avremmo iniziato la stagione. In cuor mio sapevo già che saremmo finiti così, sinceramente mi aspettavo di chiudere la serranda a metà novembre, non prima». Le continue variazioni a cui sono sottoposte le leghe minori sono il frutto dell’andamento dei contagi, ma mentre si attende un assestamento della situazione, come per tutte le categorie lavorative colpite dalla pandemia è necessario far fronte anche all’emergenza economica e sociale. «Il ministro dello Sport Vincenzo Spadafora ci sta aiutando parecchio – rivela il tecnico – Quando i vertici hanno deciso di sospendere tutto, lui ha immediatamente dato il via alle procedure per il bonus di novembre, che è passato da 600€ a 800€». Misure d’emergenza per aiutare chi lo sport lo respira ogni giorno, nella continua speranza di riuscire, una volta per tutte, a mettere al più presto questo periodo alle spalle, allacciare le scarpe da gioco e tornare semplicemente a vivere di basket.