Vorrei sparire senza morire, queste alcune delle parole che il grande regista italiano Pupi Avati pronuncia all’interno del film realizzato su di lui dal Laboratorio di Cinema dell’Università Iulm e presentato ieri – 1 marzo – nell’auditorium della stessa. Parole che sono state scelte per intitolare questo magnifico ritratto del Maestro Avati, ripercorrendo importanti spezzoni della sua intensa vita e carriera.
A tenere le redini dell’evento il Rettore e Professore Gian Battista Canova, che ha presentato e accolto il regista bolognese insieme ai tre ragazzi che si sono occupati della realizzazione del film: Marta Erika Antonioli e Nicola Baraglia, alla regia, ed Hilary Tiscione, produttrice.
La nascita di un pilastro del cinema italiano
Nato a bologna il 3 novembre del 1938 e figlio di un antiquario, Pupi Avati rappresenta uno tra i registi, sceneggiatori, attori, produttori scrittori, musicisti e montatori più importanti del panorama cinematografico italiano. Quando il suo animo si smosse per merito del film 8 e mezzo di Federico Fellini, Avati capì che il cinema visto da dietro la cinepresa sarebbe stato la costante della sua vita. Questa idea fu cavalcata anche dal fratello Antonio, il quale, come ambizione, aveva quella di diventare attore.
I due ragazzi vennero appoggiati dalla madre nell’inseguimento dei loro sogni. Quest’ultima, infatti – mentre Pupi, dopo essersi laureato in Scienze Politiche a Firenze, stava ancora lavorando come rappresentante dei surgelati Findus – decide di trasferirsi a Roma con Antonio, aprendo una piccola pensione e spianando la strada all’arrivo del futuro regista.
Da Bologna a Roma: la spinta data dal sogno e da quel «sai che qualcosa succederà»
La pensione della madre , insieme alla magica città romana, divennero il rifugio perfetto per Pupi, che sognava di entrare nello sfavillante mondo del cinema italiano. Finanziato da un mecenate bolognese – il costruttore edile Carmine Domenico Rizzo, rimasto inizialmente anonimo – Avati, ancora di base a Bologna, realizzò due film che lui stesso definisce come fallimentari: Balsamus, l’uomo di Satana (1968) e Thomas e gli indemoniati (1970). Questi lo portarono ad essere deriso e chiamato, in modo dispregiativo, il regista, da tutta la sua città d’origine.
Qui si sviluppò l’amore per la musica e per il Jazz, facendo parte dal 1959 al 1962 di una band chiamata Doctor Dixie Jazz Band. In essa, entrò a far parte anche il concittadino Lucio Dalla. Una grande amicizia, che, però, all’inizio fu caratterizzata da una rinuncia di Avati al suo ruolo all’interno della band, consapevole che il proprio talento avrebbe puntato altrove. La presenza di Dalla fu una causa scatenante.
Roma lo accolse, con i suoi Studi di Cinecittà e con presenze del calibro di Ugo Tognazzi a fare da catalizzatore dell’attenzione, oltre che da obiettivo da raggiungere. Grazie al famoso attore, infatti, Avati iniziò la sua ascesa nel mondo dorato dei grandi registi. Ugo Tognazzi dal nulla si propose come interprete del ruolo principale del film La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, scritto da Avati. Così, Pupi arrivò a sceneggiare, dirigere e produrre film del calibro di Cinema!!!, Regalo di Natale, I cavalieri che fecero l’impresa e molti altri. Il resto deve ancora venire.
Pupi Avati e le nuove promesse delle regia, insieme in Vorrei sparire senza morire
Grandi emozioni vengono suscitate dalle parole spese dal regista nelle scene del docufilm realizzato dall’Università Iulm. Creato partendo da un’idea del Rettore e Professore Gian Battista Canova, il progetto svela un uomo dai tanti ricordi, che possono riempire intere pagine bianche legate, sì, al Cinema, ma anche a riflessioni quotidiane sulle varie sfaccettature della vita. Uno di questi è il tema della morte, argomento che preoccupa il regista, pensando a come essa potrà essere vissuta da parte dei suoi figli, ricordando il dolore infinito provato da lui stesso a causa della perdita della madre.
Il racconto
In Vorrei sparire senza morire il regista si racconta, ripreso nella sua città, seduto nel bar frequentato da una vita o anche alla sua scrivania. Spezzoni presi da video riguardanti la sua carriera accompagnano lo spettatore, facendogli rivivere la direzione di film o sue vecchie interviste.
Il film apre l’occhio della cinepresa nel cimitero di San Leo, luogo che ha fatto parte della vita di Pupi Avati fin dai suoi primi anni e dove, ora, riposano molte delle persone che «per prime, gli hanno insegnato la vita».
Avati cammina per Bologna, città nella quale sperimentò i primi dolori relativi alla sua carriera e che poi in qualche modo lo respinse. Così, si alimentò ancora di più in lui l’amore per la città di Roma, che lo accolse, invece, a braccia aperte. Come racconta lo stesso regista, ciò avvenne anche «grazie all’indifferenza» di quella città. Sullo stesso marciapiede – racconta – può camminare un grande del cinema italiano come una persona qualunque.
Un animo profondo, alla ricerca continua delle felicità
La forza creativa di Pupi Avati esplode dai suoi film come da alcune sue dichiarazioni, che lo pongono sul podio delle presenze artistiche più importanti del cinema italiano. La contraddizione legata alla realizzazione di ciò che più ama fare – il cinema – che si intreccia con continue insicurezze, dubbi e sofferenza nel ritrovarsi sul set, lo dipingono come una figura dal grande spessore interiore.
Un mix di grande ambizione – che da sempre lo accompagna e che gli ha permesso di raggiungere i livelli più alti nel panorama artistico – ed insoddisfazione abita la mente di un regista dalle emozioni intense. Come udiamo dalle parole pronunciate dal lui stesso durante l’incontro tenutosi all’Università Iulm: «Il cinema mi ha dato moltissime gioie, ma anche tantissime sofferenze».
Emozioni contrastanti
«Molte mattine andare sul set rappresenta la cosa che meno vorrei fare al mondo. E mi chiedo: ma perché io mi sto costringendo a questa scelta di vita che mi espone continuamente a questa ricerca di felicità? Perché non siamo mai definitivamente cresciuti?». Queste le parole di Avati. Così, si palesa anche il desiderio di giungere a ciò a cui mai è riuscito ad arrivare e cioè «pensare semplicemente a vivere». Tale pensiero lo porta quasi ad «invidiare una signora che, in maniera rilassata, stende il suo bucato».
Un grande personaggio di così grande rilievo, spessore d’animo, vivacità artistica e acume intellettuale che si apre a noi, mostrando e ammettendo le proprie debolezze umane, con tanta eleganza e saggezza. Viene da pensare che, allora, chiunque possa vivere la propria vita senza sentirsi in colpa in caso di errori, prendendo esempio da lui per inseguire i propri sogni.
Come racconta Pupi, a trent’anni aveva una grandissima energia e poteva andare avanti e indietro guidando da Bologna a Roma e viceversa nella stessa giornata, in quanto era «spinto dal sogno, da quella sensazione che qualcosa sarebbe successo».
L’Alta Fantasia: Dante raccontato da Pupi Avati
Dalla grande passione per la figura e la storia di Dante Alighieri, il regista Pupi Avati ha colto tutto la forza per realizzare il suo nuovo libro L’Alta Fantasia. Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante, edito da Solferino.
Un amore, quello per Dante, che Pupi Avati coltiva da vent’anni, trascorsi anche ad effettuare letture e ricerche approfondite su questo pilastro della nostra storia letteraria e non solo.
Dal libro, il regista ha scelto di prendere spunto per realizzare anche un film. In questo modo, egli ha dimostrato nuovamente la sua grande abilità nel narrare storie e veicolare emozioni. Dante Alighieri ci viene presentato con tratti dipinti in maniera umanizzata, in contrasto con l’immagine idealistica che ognuno di noi può aver creato nel proprio immaginario.
Il viaggio di Boccaccio
Tutto questo, Pupi Avati lo regala al pubblico attraverso la messa in scena del viaggio di Giovanni Boccaccio. Anche egli estimatore di Dante, intraprese un lungo viaggio quasi trent’anni dopo la morte del poeta fiorentino, alla ricerca della figlia di Alighieri, monaca al convento delle Clarisse di Santo Stefano degli Ulivi. L’obiettivo era quello di portarle una borsa di dieci fiorini come risarcimento per il male subito da suo padre a causa degli abitanti di Firenze.
Unito a questo scenario, l’insieme di flashback – tratti da La Vita Nova – relativi alla vita del poeta fiorentino, scomparso a Ravenna nel 1321. Il Dolce Stil Novo viene portato sulle pagine dal Maestro Avati anche grazie al racconto di quello che è stato il rapporto d’amicizia di Dante con Guido Cavalcanti. Importante la luce posta sulla figura di Beatrice, resa «più donna e meno barbie». Presenti anche parole spese nei confronti della moglie di Alighieri, Gemma Donati.
La stessa forza di Boccaccio nell’intraprendere quel viaggio, la ritroviamo nel regista Pupi Avati, che si è basato sulla figura dell’autore del Decameron per scovare tracce di Dante nel passato e regalarle a noi nel 2022.