Sempre più senzatetto a Milano: il Piano Freddo non può aiutare tutti

Romulus ha sistemato la sua brandina sotto un portico in cui la luce rimane sempre accesa. Ha aggiunto delle coperte. Vicino al letto sigarette, accendino e vino. Così tenterà di superare un altro inverno nelle strade di Milano. Come lui circa mezzo milione di persone in Italia. Secondo le ultime stime, nel capoluogo lombardo le persone senza fissa dimora sono tra i 3 e i 7mila. Numeri sottostimati per le associazioni che lavorano sul territorio, ma che fanno comunque di Milano la città con più senzatetto del Paese. Molte persone sfuggono persino dai radar dei volontari, troppo diffidenti per lasciarsi avvicinare.

Il Piano Freddo

Sui 368 decessi registrati dall’inizio dell’anno nel database nazionale di fio.Psd (Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora), 32 sono avvenuti nella provincia di Milano. Il freddo porterà via altre vite, come ogni anno, ma il comune prova ad affrontare l’emergenza usando le armi ormai consolidate nel tempo.  Con il Piano Freddo sono stati attivati da subito 440 posti in più nelle strutture per chi dorme in strada. Altri 200 saranno eventualmente aggiunti su segnalazione delle associazioni che collaborano col sistema di accoglienza. A questi si sommano ulteriori letti che possono essere integrati in modo progressivo qualora servisse.

Le persone più fragili

Non tutti, però, usufruiscono di questo servizio. Le ragioni sono tante quante le diverse cause per cui queste persone sono finite per strada. Romulus, per esempio, ha provato ad adattarsi alle regole di convivenza di un dormitorio, ma non ce l’ha fatta e dopo tre richiami se n’è dovuto andare. Diciotto associazioni presenti in città assistono le circa 600 persone che come lui rimangono per strada, offrendo cibo, coperte, assistenza medica e calore umano.

Un senzatetto riceve assistenza da un volontario di Arca
Progetto Arca

«Ogni associazione registra in una piattaforma le informazioni sulle persone che aiuta, in modo che tutti i volontari sappiano di cosa potrebbero aver bisogno. È così che ci siamo resi conto che sono in aumento», dice Alberto Sinigallia, presidente del Progetto Arca, che dal 1994 offre aiuto a persone senza dimora. Altro fattore rilevante è il numero di pasti offerti ogni giorno: solo Arca serve oggi circa il 20% di pasti in più rispetto all’anno scorso. «Tutti i giorni incontriamo persone nuove. Tanta gente che ha perso tutto, che non ha più contatti con la famiglia, ma soprattutto molti più giovani di prima», continua Sinigallia. Spesso questi ragazzi hanno delle dipendenze.

Oltre l’alcol, «comune denominatore delle persone per strada», adesso si vedono molti ragazzi che assumono pasticche. Alcuni riescono a disintossicarsi, ma a volte si sono impasticcati talmente tanto che le loro cellule cerebrali si sono bruciate per sempre: «Ti guardano, ma il loro sguardo è assente». Molti sono ancora minorenni, sia italiani che di origine straniera. Per cercare di tutelarli è stato aperto un nuovo sportello dedicato solo a loro in via Aldini, a Quarto Oggiaro. A inizio 2022 una palestra è stata trasformata in dormitorio per accoglierli.

Un rifugio anche per l’amico a quattro zampe

Tra le persone che rimangono per strada ci sono spesso anche quelle con animali. Arca da circa un anno ha aperto la Cascina Vita Nova che permette di accogliere le persone con il proprio cane: «Luigi, per esempio, viveva per strada e con lui c’era anche Jack, il suo cane. Dopo trent’anni per la prima volta si è fatto convincere a venire in un dormitorio grazie alla possibilità di portare Jack». Ma Cascina Vita Nova ha solo sette appartamenti ed è l’unica struttura che offre questo servizio. Molte persone rimangono ancora senza un tetto per amore del proprio animale.

Le attività di Ronda e Milano In Azione

Anche Maddalena Baietta, fondatrice di Ronda, vede un numero crescente per strada. «Prima c’erano molti extracomunitari, adesso ci sono molti più italiani», spiega. La sua associazione, che da 25 anni si occupa di sostenere le persone senza dimora, incontra spesso persone che hanno un passato da lavoratori precari: «Facevano il lavapiatti o lavavetri e grazie a questo riuscivano a pagarsi un posto letto. A causa del Covid, hanno perso il lavoro e non sono più riusciti a trovarne un altro». Insieme a Ronda, anche Milano in Azione, Onlus che opera dal 2012, si occupa dell’area centro ovest di Milano. «Il 90% delle persone in strada sono uomini. Le donne si trovano più verso il centro, considerato più sicuro perché ci sono più controlli. In quella zona  si incontrano anche tanti anziani, che non riescono a gestire le proprie finanze e hanno perso la casa», dice Luca Sechi, responsabile di Milano in Azione.

Chi finisce per strada

Tra questi c’è pure chi si trova in questa situazione da poco tempo. «Ci sono persone che non sono ancora emarginate e noi proviamo a individuarle prima che si abituino alla strada – spiega Baietta – . Se riusciamo a indirizzarle verso i posti giusti, riusciamo ad aiutarle». Secondo la fondatrice di Ronda, c’è sempre un malessere, un disagio psichico che spinge una persona a rimanere in strada. Alla base ci sono anche depressione e mania di persecuzione, di chi pensa che, finendo in dormitorio, possa essere osservato o controllato. Baietta denuncia la mancanza di strutture apposite per questi casi psichiatrici. «Nella periferia di Milano – aggiunge invece Sechi – , ci sono più stranieri rispetto al centro, meno orientati ai servizi delle associazioni. Spesso hanno un lavoro che non permette loro di pagare un alloggio o vivono in una condizione di sovraffollamento con i propri connazionali».

Come ci si salva

Le due associazioni hanno aiutato molti di loro a cercare lavoro. Uno tra questi è Abanob, un ragazzo egiziano-copto, arrivato in Italia a diciotto anni, che non conosceva l’italiano. «È rimasto con noi circa quattro anni e all’inizio gli abbiamo insegnato l’essenziale, a leggere i nomi delle strade ad esempio. Ha fatto da noi un corso da panettiere e adesso è diventato così bravo che lavora in una focacceria in centro e ha chiesto il mutuo per una casa fuori Milano», racconta Baietta. «Riscattare una persona è un lavoro lungo, può durare anni. Ognuno ha le proprie convinzioni e bisogna costruire mattoncino dopo mattoncino, perché non tutti si lasciano subito aiutare», dice il responsabile di Milano in Azione. Nell’esperienza di Sechi, le persone che entrano in dormitorio spesso hanno una fragilità sanitaria, «per questo riusciamo a convincerle», continua. È il caso di un signore che viveva in via Washington, per otto anni è stato sotto la stessa pensilina dell’autobus e spesso era in abuso alcolico. Quando è stato male, un educatore di strada l’ha convinto finalmente a vivere nel centro del Comune di via Pollini.

Prima di tutto cibo e coperte

Tutte queste associazioni, coinvolte nel Piano Freddo, distribuiscono generi salvavita come coperte e sacchi a pelo termici: «D’estate, con il caldo, ti puoi concentrare di più sulla relazione, d’inverno, invece, conta maggiormente la parte fisica, l’aiuto materiale. Il nostro obiettivo è sapere che le persone siano ben coperte e insistere per convincerle a entrare in dormitorio», dice il responsabile di Milano in Azione. Ogni sera i volontari partono con i propri furgoncini carichi di tutto quello che potrebbe servire. Pasta, fagioli, sandwich, tè caldo, medicine, maglioni e giacche permettono di abbattere quella barriera che si interpone tra chi aiuta e chi è nel bisogno. Quel primo contatto è l’inizio di tutto.

Una notte passata con i volontari di Milano in Azione: la storia di Franz
Il rifugio di Hassan

Sotto la tettoia di una vecchia cascina abbandonata Franz ha costruito il suo rifugio. Lontano dalle case, circondato dalla campagna della periferia ovest di Milano, si sente al sicuro. Per raggiungere quello che da due anni è il posto in cui passa le sue notti bisogna percorrere una stradina sterrata e piena di buche, interrotta da una sbarra arrugginita che ne limita gli accessi. Il termometro segna due gradi, e per scaldarsi Franz accetta volentieri un bicchiere di tè caldo e un piatto di pasta e fagioli. Il sacco a pelo non gli serve, i volontari gliene hanno portato uno qualche settimana fa, insieme ad alcune coperte. Per ripararsi dalle gocce di pioggia che la vecchia tettoia non riesce a parare, sopra al letto ha sistemato un telone di plastica con la pubblicità della birra Heineken. «Io non ho mai bevuto alcol, solo l’odore mi fa venire la nausea» racconta in un ottimo italiano.

È sloveno, di Nova Gorica, città al confine con il Friuli-Venezia Giulia. «Lì avevo una bella casa grande, con un ettaro di terreno e un garage trasformato in officina meccanica». Apparentemente forte e robusto, Franz è abile nei lavori manuali. Elettricista, meccanico e all’occorrenza giardiniere, anche dopo il trasferimento a Milano insieme alla moglie e ai due figli aveva continuato a lavorare al Bosco in città. A testimoniare le sue capacità con fili, cavi e circuiti elettrici, un piccolo generatore. «Così io vi frego tutti quanti, ricarico il mio cellulare grazie a questo pannello solare». Indica l’intricato sistema che ha messo in piedi e soddisfatto spiega che è stato un «gioco da ragazzi».

La sua vita è cambiata nel 2013, quando una macchina l’ha investito mentre andava in bici. «Mi sono rotto tutto: costole, vertebre, ginocchia e caviglie. Ho l’artrosi e sono diventato cardiopatico». Da quel giorno convive con un dolore terribile che non gli permette di lavorare. «Ho perso tutto. Ho 60 anni e non so per quanto tempo dovrò stare qui. Si può chiamare vita questa?». È in attesa che la causa legale con la compagnia di assicurazione della macchina che l’ha colpito si risolva. «I miei avvocati mi ignorano, nessuno si interessa di come sto. E io intanto soffro».

Nonostante tutto, Franz continua a chiacchierare con leggerezza, senza perdere la voglia di scherzare e raccontare barzellette. Anche quando ride, però, rimangono le ombre scure nei suoi occhi. «Questo è il mio secondo inverno qui, non posso vivere ancora molto in questo modo». Così si affida alla preghiera, a un pasto caldo dalle suore della chiesa vicino e all’aiuto dei volontari. Lancia uno sguardo al cielo e sorride verso il tetto di stelle che in questa parte della città brillano un po’ di più.

Antonio: l’automobile come casa

Sotto lo stesso cielo gelido c’è anche Antonio. Nel quartiere Gallaratese, alla fine di una strada curva circondata da palazzoni è parcheggiata la sua auto, che è diventata casa. Una polo grigia completamente ricoperta da uno spesso strato di brina ghiacciata.

La macchina in cui dorme Antonio

Un volontario bussa al suo finestrino e salutandolo gli chiede se abbia voglia di mangiare qualcosa, se gli servano coperte, salviette, medicine o qualsiasi cosa possa aiutarlo a superare una delle lunghissime notti per chi non ha un tetto sulla testa. Antonio ha 58 anni, era un impiegato di un’azienda commerciale ma preferisce non parlare di come abbia perso il lavoro, la casa e la famiglia. Dice di non avere nessuno. Quando riceve la sua porzione di pasta sussurra «Oh, che bella». Erano nove giorni che non mangiava e tre che non beveva neanche un goccio d’acqua. Sarebbe il suo primo inverno passato in strada e i volontari cercano di convincerlo a recarsi in un dormitorio. Spiegano che in situazioni come queste ci si trova a un bivio, puoi farti ingoiare dalla vita di strada (che diventa una dipendenza, con meccanismi difficili da cui uscire) oppure, accettando gli aiuti, puoi provare a rimetterti in sesto.

Antonio non riesce a muoversi bene, è debole. A inizio mese è stato in ospedale e ora sono dieci giorni che non cammina. «Dammi delle pastiglie di cianuro» mormora a un volontario. Poi apre un po’ la portiera, giusto il tempo di farsi sistemare le coperte, e di lasciar constatare ai volontari che potrebbe essere piuttosto il freddo a ucciderlo.

Indossa solo una tuta e l’abitacolo dell’auto è una cella frigorifera. «Passerete nei prossimi giorni?» È una domanda ma suona come una supplica di chi non sa ancora se vuole essere salvato.

Il riscatto di Hassan

A pochi chilometri da lì si trova Hassan. Il suo Marocco ha appena eliminato la Spagna dal Mondiale e la notizia della vittoria gli strappa un sorriso. Dal cantuccio fatto di coperte, materassi e stendini che recintano il suo angolino allunga un braccio per offrire ai volontari una Marlboro gold, Hassan è generoso. Poi prende una sigaretta per sé, la porta alle labbra e per accenderla usa un fornellino da campeggio arancione. «Con questo cucino tutto, pollo, cipolle, carote, carne. La mattina mi basta latte e caffè». Lo ripone con cura, lì non c’è solo la sua cucina portatile ma i sapori della sua terra. Attorno a quella fiammella ruotano anche le sue giornate, scandite da pranzi e cene arrangiate e dalla fatica di chi da 11 anni cerca di tirare avanti in Italia. Hassan non parla un italiano perfetto ma riesce a farsi capire con lunghi sospiri e il luccichio negli occhi.

Il rifugio di Hassan

Tra pochi giorni lascerà il sottoscala dell’edificio in cui passa le notti ed entrerà in uno dei dormitori messi a disposizione dal Comune. «Aspettavo questo momento da tanto tempo» racconta emozionato. A 51 anni è pronto ad abbandonare la strada per provare a dare una svolta alla sua vita: «Vorrei lavorare, mi va bene qualsiasi cosa». Ha sempre fatto il commerciante, vendendo cappelli, occhiali e altri prodotti nei mercati della città. «In Italia le persone sono più libere che in Marocco, ma con la crisi non guadagno nulla». Da via Padova a Corvetto, Hassan ha girato tutta Milano senza mai trovare fortuna. Da qualche mese si è stabilito a Bonola, e anche se non ha amici o parenti (con suo fratello ha chiuso i rapporti da anni) si sente tranquillo. «Passa poca gente qui – spiega – ogni tanto arriva un signore ubriaco ma non mi dà fastidio».

Dopo aver ringraziato i volontari per il tè caldo, per il sandwich al tacchino e per la compagnia, tira fuori il cellulare e inizia a guardare dei video. Sono gli spezzoni della partita Marocco-Spagna. Mentre il furgoncino dei volontari si allontana, la notte si spegne su Hassan che, accoccolato in un sottoscala, esulta in silenzio. Un po’ per i mondiali un po’ per la nuova vita che forse lo attende.

 

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