Liliana Segre alla Iulm, “non siate indifferenti e coltivate la memoria”

Liliana Segre, 88 anni, senatrice a vita, superstite dell’Olocausto e testimone della Shoah italiana, si siede in cattedra al centro dell’Auditorium della Iulm. Il silenzio in sala è assoluto, finché non parte un applauso che il moderatore è costretto a interrompere, prendendo in mano il microfono.

Si presenta come una nonna, che è venuta a raccontare una storia ai suoi nipoti ideali. Quando le chiesero che cosa scrivere sul muro d’ingresso del binario 21 della stazione centrale di Milano, da cui partivano i treni merci per deportare gli ebrei, lei rispose: INDIFFERENZA. E a caratteri cubitali. « Per anni mi sono battuta per aprire al pubblico il binario 21 ed anche per lasciarci incisa questa parola – dice la Segre – perché è stata l’indifferenza di un mondo intero a permettere le leggi razziali, la deportazione, lo sterminio di massa. La stessa di quando si crede che un rumore che proviene dall’altra parte del muro, non ci riguardi».

Come se leggesse dalle pagine di un diario, inizia a raccontare la sua storia, quella di una bambina che a 8 anni – nel 1938 – viene espulsa dalla propria classe, la terza elementare, e rimane con una interrogativo a cui nessuno riesce a dare risposta: «Perché? Mi domandavo. Perché? Domandavo a mio padre. Nessuno aveva il coraggio di dirmi: perché sei nata. Perché sei nata ebrea. Le compagne mi additavano per strada, nessuno mi invitava più a giocare casa. Nessuno eccetto tre amiche, le uniche della mia classe per le quali non ero diventata invisibile».

Con l’inasprirsi della persecuzione degli ebrei italiani, il padre è costretto a nasconderla da degli amici. «Al tempo, chi proteggeva gli ebrei rischiava la fucilazione. Gli amici di mio padre furono degli eroi. Erano genitori, avevano figli, erano disposti a sacrificare la loro vita per non voltarci le spalle. E io odiavo stare da loro, non facevo che disperarmi. Non potevo capire».

Compiuti 13 anni, nel 1943, La Segre con il padre e due cugini cerca di fuggire a Lugano, in Svizzera. «Abbiamo camminato per giorni dietro a dei contrabbandieri, i trafficanti di immigrati oggi, che facevano transitare antifascisti, renitenti alla leva ed ebrei dall’Italia alla Svizzera. Ma una volta raggiunto il confine, l’Ufficiale svizzero ci fece tornare indietro. Così, insieme a mio padre, venni arrestata» – e continua – «Sono stata incarcerata a Varese, a Como e nella mia città, al carcere San Vittore di Milano, per 40 giorni. Ricordo che da dentro la cella vedevo il tram passare. Mio padre aveva allora 44 anni, i miei figli oggi sono più vecchi di lui. Era un uomo distinto, il mio papà. Intelligente, sensibile, gentile. Condividevamo la cella, ma tre-quattro volte la settimana le guardie venivano a prenderlo per interrogarlo. E io aspettavo ore nell’ansia di non vederlo mai più. Se a 13 anni vivi questo, non sei più una ragazzina. La tua adolescenza ti viene rubata. Diventi una vecchia”.

A 14 anni, il 30 gennaio del 1944, viene deportata dal Binario 21 della stazione di Milano Centrale al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, che raggiunge sette giorni dopo. Appena varcati i cancelli, viene separata dal padre, che non rivedrà mai più. Alla selezione nel campo di concentramento, riceve il numero di matricola 75190, che le viene tatuato sull’avambraccio. Diventa un’operaia per la fabbrica munizioni Union e durante la sua prigionia subisce altre tre selezioni. «Di colpo ti ritrovi davanti al male e sei incredulo. Era l’impianto dello sterminio e stava bruciando vite in Europa, nella culla della civiltà – racconta – I due anni nei campi di concentramento mi hanno resa un’altra. Ho perso la dignità, mi sono macchiata di delitti spirituali con cui ancora oggi faccio i conti. Auschwitz è indicibile, non esistono parole per raccontarlo». «Ma – conclude – il primo maggio 1945 il cancello del campo di Malchow si apre. L’armata rossa libera il campo e quelli che tra di noi gli erano sopravvissuti. Durante quegli anni mi ero nutrita di odio e di vendetta e proprio di fronte a me un comandante nazista, spaventato, all’arrivo dei russi si spoglia della sua divisa e fa cadere la sua pistola ai miei piedi. La tentazione di afferrarla e di ucciderlo fu forte, ma non lo feci, io non ero come lui. Io avevo sempre scelto la vita».

 

Sofia Francioni

Laureata in Lettere Moderne e cresciuta dentro la redazione della cronaca della Nazione di Firenze, vorrebbe diventare una cronista "sconosciuta e felice"

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