Crescere, non ad ogni costo: il consumo del suolo a Milano

Sono passati due mesi esatti dalle elezioni amministrative che hanno confermato Giuseppe Sala sindaco di Milano. Sessanta giorni nei quali il rieletto primo cittadino sta impostando il cammino che la città dovrà seguire nei prossimi cinque anni per rispettare le promesse della campagna elettorale. Tra gli argomenti più dibattuti, sia nelle settimane che hanno precedute le elezioni, sia in quelle successive, c’è la svolta ecologista di Sala. L’accordo con i Verdi, arrivato in campagna elettorale, ha attribuito al sindaco del PD il ruolo di amministratore ecologista, ma sono numerose le voci che lo accusano di greenwashing.Più in generale, le recenti elezioni amministrative hanno dimostrato che tanti candidati, di diversa origine politica, hanno capito la necessità di un cambio di rotta nel modo in cui dovranno essere governate le città. In tal senso, il capoluogo lombardo ha un suo progetto e si chiama Milano 2030. Gli obiettivi sono ambiziosi ma necessari, e tra questi spicca la risoluzione delle problematiche di consumo del suolo.

Milano
Visione aerea del capoluogo dal progetto Milano 2030

Un male, quello dell’impermeabilizzazione dei terreni naturali, che affligge tutta la Lombardia. Al primo posto in Italia in questa indesiderata classifica, con oltre 2885 km2 di suolo consumato, la Lombardia annovera tre delle prime quattro province con la maggiore quantità di suolo consumato: Monza e Brianza, Varese e appunto Milano. La città amministrata da Sala ha una percentuale di suolo consumato superiore al 58%. Questo dato però non stupisce: la Lombardia primeggia anche nella classifica nazionale per densità di popolazione e si trova a dover conciliare la crescente richiesta di soluzioni abitative con uno sviluppo che sia sostenibile.

Il consumo del suolo

Ogni secondo, in Italia, 2 metri quadri di suolo vengono consumati irreversibilmente. Tra i 50 e i 60 km quadrati di suolo naturale ogni anno. Un danno che, oltre a pesare sul bilancio ambientale e climatico del nostro Paese, costa 3 miliardi di euro l’anno a tutti i contribuenti. Una nota spese invisibile, che non risulta in nessun rendiconto istituzionale, anzi, la continua espansione edilizia fa crescere il PIL, camuffando con l’effervescenza produttiva le problematiche create dal consumo di suolo naturale. Riduzione della produzione agricola, alterazione dei cicli ambientali, annullamento della capacità di stoccaggio del carbonio nel suolo, impatto sulla biodiversità.

Queste sono solo alcune delle conseguenze irreversibili causate dalla continua riduzione di suolo naturale. A comunicare questi dati è L’ISPRA, Istituto Superiore per la Protezione Ambientale, che si riferisce al consumo di suolo come a «un fenomeno associato alla perdita di una risorsa ambientale fondamentale, dovuta all’occupazione di superficie originariamente agricola, naturale o seminaturale. Il fenomeno si riferisce a un incremento della copertura artificiale di terreno, legato alle dinamiche insediative e infrastrutturali».

Un suolo risulta quindi consumato quando viene impermeabilizzato e, di fatto, non è più in grado di svolgere la propria funzione in quanto tale. Questo processo è non rinnovabile, in quanto la pedogenesi – ovvero il processo che porta alla formazione del suolo grazie all’azione di fattori fisici, chimici e biologici – è estremamente lenta: sono necessari almeno 500 anni per la formazione di 2,5 centimetri di suolo.

Perciò, una volta che il terreno è stato impermeabilizzato per far posto a strade, case o ad altre attività umane, tutte le sue funzionalità vengono meno e rimuovere la copertura non è sufficiente a ripristinarlo in tempi brevi, di conseguenza diventa essenziale proteggerlo e limitarne il consumo.

Sviluppo lineare e circolare

Il consumo di suolo è un dato di fatto inevitabile per la Lombardia che, con i suoi 418 abitanti per km2, è in cima alla classifica nazionale per densità di popolazione. Naturalmente questo primato non può giustificare un consumo di suolo privo di regolamentazioni che, se da una parte risolverebbe un problema immediato (la continua richiesta di abitazioni e centri di produzione), dall’altra ne creerebbe uno più grande e dagli esiti riscontrabili solo in futuro: quello ambientale.

Ing. Michele Munafò – ISPRA

È necessario quindi ripensare lo sviluppo urbano passando da una concezione lineare, di crescita progressiva, a una circolare, di trasformazione e rinnovo. In definitiva, puntare non all’urbanizzazione di nuove aree ma alla rigenerazione di quelle già esistenti che miri a dare nuova vita e nuove funzioni a edifici e aree in disuso. Un’esigenza sottolineata anche dall’Ing. Michele Munafò, Responsabile del Servizio per il sistema informativo nazionale ambientale dell’ISPRA: «C’è bisogno di atti concreti, non solo dichiarazioni. Occorre ridurre fino ad azzerare le previsioni di nuove urbanizzazioni e incentivare il recupero dell’esistente».

Il quadro normativo

La regolamentazione lascia grande discrezionalità alle regioni e, in mancanza di una legge quadro nazionale di riferimento, è difficile porsi obiettivi concreti e monitorare i progressi in materia di consumo di suolo. Una legge per regolamentarla è attualmente in commissione al Senato e prevedrebbe di stanziare 500 milioni all’anno per i comuni per vent’anni, da destinare a progetti di rigenerazione urbana.

Milano MIND, progetto di rigenerazione dell’ex Area Expo

La Commissione Europea invece ha da poco definito una strategia per la gestione del suolo che stabilisce una gerarchia strutturata su quattro livelli, come ci spiega l’Ing. Munafò: «Il primo ha l’obiettivo di evitare il consumo; il secondo punta al riutilizzo; il terzo subentra quando le prime due opzioni non sono attuabili e impone che il consumo avvenga su terreni poco fertili o già degradati, tentando di ridurlo al minimo. Il quarto e ultimo punto riguarda la compensazione, non di tipo urbanistico o economico ma finalizzata a mantenere inalterate le condizioni ecosistemiche del territorio».

Il caso di Milano

All’interno di questo quadro è interessante il caso del capoluogo lombardo. Milano è una città che ha sostanzialmente fermato il consumo di suolo, come auspicato dalla nuova strategia UE. C’è però un problema: le sue politiche urbanistiche, virtuose dal punto di vista del consumo, stanno rendendo l’edificazione nell’ambito urbano molto costosa.

Dott. Damiano Di Simine, Legambiente Lombardia

Damiano Di Simine, responsabile scientifico di Legambiente Lombardia ci ha spiegato la conseguenza diretta di tali politiche: «tutte le funzioni non pregiate finiscono per occupare suoli periferici non della città ma dell’area metropolitana. Di fatto Milano esporta consumo di suolo». È il caso di capannoni logistici, depuratori delle acque, infrastrutture stradali che si stanno allargando a macchia d’olio in tutto l’hinterland milanese.

Non solo. Nell’area metropolitana il consumo di suolo è aumentato anche all’interno di aree protette (passando dai 211 ettari del 2012 ai 217 del 2020) e di aree ad alta pericolosità idraulica (da 681 ettari nel 2012 a 695 nel 2020). «Questo perché di fatto non c’è una legge che lo impedisca», continua Di Simine. «La legge individua quattro classi di pericolosità idraulica e solo in quella più alta è vietato costruire».

Spetta quindi ai protagonisti del settore adottare soluzioni consapevoli. La rigenerazione urbana passa attraverso il concetto di trasformazione: uno sviluppo circolare che sia realmente fonte di benessere e progresso per la collettività, a breve e a lungo termine.

Milano
Fondazione Prada Milano, esempio di rigenerazione urbana
Valeria De March

Laureata in Lettere moderne, giornalista pubblicista, oggi praticante per MasterX. Da anni mi occupo di musica, arte e cultura con l’obiettivo di raccontare le storie degli artisti. Sono diplomata in danza classica, da qui la determinazione che mi porta a non fermarmi mai alla superficie delle cose.

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