Il ticchettio della macchina da scrivere e la voce del dimafonista al telefono. Due suoni inconsueti e quasi estranei per i giornalisti dell’oggi. Eppure, quei rumori ancora riecheggiano nella memoria di coloro che hanno vissuto negli anni in cui era doveroso consumarsi le suole delle scarpe per colmare i menabò.
Quaranta anni fa, diventare giornalisti significava scegliere l’impegno civile. Walter Tobagi lo sapeva bene. Giovane, impaziente, «sempre con l’ansia e l’angoscia di sapere e capire senza risparmio di forze», scrisse il collega Alberto Ronchey sul Corriere della Sera all’indomani dell’attentato. Quella mattina del 28 maggio 1980 anche l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, in visita a Toledo, scoppiò a piangere per la morte del cronista buono che scriveva di fabbriche, sindacati e scuole.
«Walter Tobagi ha lasciato l’umiltà del cronista e la raffinatezza dell’analista – ammette l’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli –. Adesso c’è nostalgia per il giornalismo del passato ma nell’attualità ho visto grandi esempi di cronisti che sarebbero piaciuti a Tobagi, giornalisti che verificano di persona ciò che succede, superando la pigrizia tecnologica. Avere tutto a portata del proprio schermo spesso dà la sensazione di essere testimoni in diretta ma il giornalismo si fa andando a vedere cosa è successo, senza essere prigionieri di verità confezionate».
Eppure, oggi risulterebbe strano lavorare sempre sul campo. Internet serve alla tavola delle redazioni migliaia di informazioni. Aggiornare le notizie in tempo reale diventa una priorità, essere veloci un requisito. La qualità dei contenuti rischia di annacquarsi. «Di quel giornalismo rigoroso e preciso, oggi è rimasto pochissimo. Molte volte, i giornalisti si alimentano dal web e non escono: questo non significa fare informazione», afferma il giornalista Massimo Fini. È stato lui, dopo la moglie Stella, a vedere Tobagi per l’ultima volta. «Il direttore di La Notte diceva che il nostro lavoro è prima con i piedi, poi con la testa», aggiunge. Tradotto: per prima cosa, il giornalista deve uscire, osservare, annusare, poi scrivere e dare un senso a quel materiale.
Allora Tobagi aveva 33 anni, era presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti e insegnava all’Università Statale di Milano. Si ostinava «a riflettere con chiarezza e a difendersi con coraggio». Il 26 gennaio 1980, in uno dei suoi ultimi articoli scrisse: «Il terrorista può sbucare dall’ombra e uccidere chiunque. Il tragico paradosso è che uccidono per dimostrare che sono vivi». Così addomesticava le paure. «Aveva deciso di abbandonare le inchieste sul terrorismo delle brigate rosse, è stato ucciso dalla Brigata 28 marzo, da due maleducati figli di papà», riferisce Fini.
Nell’era di Internet, a volte manca il tempo per osare. Al giornalista del presente non viene più richiesto di essere impegnato socialmente. La comunicazione si trasforma in un prodotto da vendere. Così la figura dell’intellettuale, storico come era Tobagi diventa un esempio per chi vuole andare in una direzione contraria rispetto a dove trascina la superficialità di molte notizie diffuse sui social media.
Nel giornalismo del futuro c’è il rischio di creare categorie di lettori. Perché non tutti oggi sono disposti a pagare per leggere notizie di qualità. Ma la buona informazione ha bisogno di tempo per essere verificata. Walter Tobagi ne era consapevole. Quel giornalista scomodo, fedele al pubblico con la vista lunga e l’olfatto fine, sapeva prevedere bene ciò che poteva succedere. E oggi la società lo rimpiange. Amaramente.