Uno spettro si aggira per le aule parlamentari: lo spettro del mandato esplorativo. Se ne sente parlare tutti i giorni, ma cosa sia di preciso nessuno lo sa. L’espressione, infatti, non si rinviene né nella Costituzione, né in leggi o regolamenti parlamentari. È una consuetudine, una pratica affermatasi nel corso degli anni alla quale il Presidente della Repubblica fa ricorso quando non sa più a che santo votarsi. Insomma, se nessun leader di partito è in grado di coagulare una maggioranza da proporre al Quirinale, per risolvere l’impasse ci si affida a una figura istituzionale, preferibilmente ai presidenti delle Camere.
Governo, mandato esplorativo a Casellati: due giorni per maggioranza Cdx-M5s
E così, vista la bonaccia che soffia sulla formazione del futuro governo, Sergio Mattarella, ha deciso di conferire un mandato esplorativo alla presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati. L'”esploratore” ha dunque l’incarico di sondare gli umori delle forze politiche, smussare gli angoli, verificare se esistono convergenze che non sono emerse durante le consultazioni ufficiali. Insomma, l’esploratore è un amo che viene lasciato a mollo nella pastura politica per vedere se qualcuno abbocca. Sarà l’esca a non essere gradita, o l’assurdità di una consultazione fotocopia, ma il mandato esplorativo non ha mai portato a nulla. È un ectoplasma, un po’ come il Cnel. Tutti sanno che esiste ma nessuno si accorge della sua presenza. E, soprattutto, non serve a niente.
Il primo caso di mandato esplorativo risale a Cesare Merzagora cui fu conferito nel 1957. Dopo di lui la formula è stata usata altre nove volte, senza mai tradursi in un incarico pieno per la formazione del governo. Dunque, ci aspetta una fumata nera. Ma le carte nel mazzo di Mattarella non si riducono al due di bastoni del mandato esplorativo. Ne ha di migliori.
Una volta constatato il fallimento della Casellati, il Quirinale può scegliere tra tre opzioni: il preincarico, il mandato pieno, o il governo del Presidente.
Il preincarico viene conferito a un leader politico per verificare se è in grado di trovare una maggioranza su cui costruire un governo. È un mandato debole perché parte dal presupposto che una maggioranza non ci sia. Il Quirinale confida dunque nelle qualità politiche dell’incaricato. Terminati i colloqui, il prescelto riferisce al Presidente che decide se dare un incarico pieno o abbandonare l’eletto al suo destino, di solito infausto. Come testimonia del resto l’ultimo caso di preincarico: quello dato a Pierluigi Bersani nel 2013. La sorte lo ha costretto a sorbirsi Renzi per tre anni, ad uscire dal Partito democratico da lui fondato e a confluire con D’Alema in Liberi e Uguali, la nuova cosa rossa che ha superato per un pelo la soglia di sbarramento del 3% alle ultime elezioni. E che si avvia, presumibilmente, all’estinzione.
Se invece c’è la certezza matematica di una maggioranza, il Presidente dà un mandato pieno a uno dei leader. Ipotesi piuttosto remota in questo momento. Nessuno infatti ha i numeri per formare un governo.
Infine, se tutte le scialuppe lanciate dal Quirinale ai partiti si dovessero schiantare sugli scogli dei veti reciproci, al Presidente non resta che una strada: un governo a sua immagine e somiglianza. Un esecutivo del Presidente. O, detto altrimenti, un’ammucchiata, un inciucio con tutti dentro. Un governo affidato a una personalità terza, esterna ai partiti, con pochi punti programmatici da attuare scelti dal Presidente, sulla scorta dell’esperienza Monti. Nello stallo attuale, l’intesa tra le forze politiche sarebbe confinata al varo dei documenti economici e di una nuova legge elettorale. Il governo sarebbe comunque a termine e servirebbe a traghettare il Paese alle elezioni, probabilmente da tenersi nel 2019. Insomma, una soluzione che serve a scongiurare un ritorno alle urne nel 2018.