Lirio Abbate: «Matteo Messina Denaro non parlerà e i segreti rimarranno tali»

Giornalista e saggista, autore di inchieste esclusive su corruzione e mafie, da anni Lirio Abbate segue da vicino le evoluzioni delle organizzazioni criminali e in particolare di Cosa nostra. Nel suo libro del 2020, U siccu. Matteo Messina Denaro: l’ultimo capo dei capi, ha tracciato l’identikit del boss trapanese recentemente arrestato. In Stragisti ha raccontato la guerra intrapresa da Cosa nostra contro lo Stato, tra il 1992 e il 1993. A trent’anni dalle stragi, in questa intervista il giornalista torna a parlare delle infiltrazioni mafiose nella politica e dell’importanza dell’ergastolo ostativo.

Com’è Cosa nostra oggi?

Negli ultimi anni, è passata dalle stragi all’infiltrazione nella politica. Questo si riflette sulla democrazia e sull’economia legale, danneggia gli imprenditori che rispettano le regole, che faticano per stare al passo con un mercato dopato dai soldi della mafia. È una Cosa nostra indebolita anche dagli arresti e dalle collaborazioni, ma ancora presente.  In passato il dominio del traffico internazionale di eroina era suo, poi è diventato della ‘Ndrangheta, ma nel frattempo Cosa nostra ha fatto altro. Entrando in politica, ha aperto strade legislative e istituzionali anche alle altre mafie. Ha ottenuto norme e decreti che possono favorire non solo i loro affari, ma anche quelli di ‘Ndrangheta e Camorra. Ogni mafia è complementare alle altre. Il caso di Tonino D’Alì è un esempio di questo tipo di infiltrazione nella politica. È stato sottosegretario al ministero dell’Interno fino al 2006. Da pochi mesi è in carcere perché condannato definitivamente per aver favorito Matteo Messina Denaro.

Con l’arrivo dei soldi per il Pnrr, sono stati messi in campo degli strumenti per contrastare questa infiltrazione nell’economia legale?

Da quello che ci dicono, le forze di polizia hanno organizzato delle task force per fare dei controlli preventivi. Il problema principale, però, è che le imprese inquinate dalla mafia spesso non completano le opere, facendo un doppio danno alla collettività. Non conquistano i finanziamenti perché sanno lavorare meglio, anzi sono un ostacolo alla realizzazione dei progetti.

Le mafie fanno affari anche al nord. Come mai ancora oggi si tende a pensare che il problema riguardi solo il sud Italia?

La strategia delle mafie è di andare nelle zone vergini che non hanno anticorpi per riconoscere questo virus. Si sono infiltrati nell’imprenditoria e nella politica Lombarda, senza spargimento di sangue per non attirare l’attenzione. Le centinaia di arresti che sono stati fatti negli ultimi anni dalla Direzione Investigativa Antimafia di Milano dimostrano le infiltrazioni nella politica regionale e comunale. Hanno candidando i loro uomini, che favoriscono le imprese in cui c’è la mano della mafia. La responsabilità, però, è anche dell’imprenditore che accetta di fare da prestanome per il guadagno, senza domandarsi da dove vengono quei soldi. Vediamo persone incensurate che si fanno affiancare dai mafiosi o che gli chiedono aiuto per i loro affari. E se un mafioso ti fa un favore, dopo ne diventi schiavo. Non vedere l’attività giudiziaria, che ha colpito molte persone al nord, significa girarsi dall’altra parte. È un comportamento omertoso. Comunque il messaggio alla società non arriva e forse c’è anche un problema di narrazione.

Matteo Messina Denaro si sta mostrando aperto al dialogo: ci possiamo aspettare che svelerà alcuni dei segreti che custodisce solo lui? Ad esempio, se ha lui l’agenda rossa di Borsellino.

Non credo a questa storia dell’agenda rossa. Io spero che possa venir fuori tutto quello che rimane inevaso, ma sarà complicato. Il fatto che in carcere socializzi con le persone che si occupano di lui non significa che “canterà”, che tradirà Cosa nostra. Vorrei essere smentito domani stesso, ma non credo che lui abbia intenzione di collaborare con la giustizia.

C’è anche la questione ancora aperta dell’ergastolo ostativo. Che problemi potrebbero crearsi se i mafiosi avessero accesso alla libertà condizionale e ai benefici penitenziari come altri detenuti?

I mafiosi mettono in conto che potrebbero essere arrestati. Dieci, venti, ventisette anni di carcere per loro sono come un master di primo livello: gli fanno acquisire notorietà e gradi. Quello che invece hanno sempre osteggiato è l’ergastolo, tanto che la strage di Capaci nasce proprio da qui. Al Maxi Processo viene inflitto a Totò Riina e ad altri della cupola. Prima di allora, i mafiosi non avevano mai pensato di rischiare il carcere a vita e questo è un fattore psicologico da non sottovalutare. L’altro punto importante riguarda i segreti che custodiscono e che possiamo scoprire solo se collaborano con la giustizia. Per diventare collaboratore, un mafioso deve indicare i delitti di cui non è stato accusato, dichiarare i suoi beni che gli verranno sequestrati e confiscati. Dovrà mettere in pericolo la sua vita e quella dei familiari, che lasceranno i luoghi in cui sono cresciuti e vivranno nella paura.  Se sa che chi resta in silenzio ottiene gli stessi benefici, perché dovrebbe parlare? Probabilmente, i segreti rimarranno tali e ci ritroveremo, per esempio, con un Giuseppe Graviano sessantenne che circola libero per le strade del nostro Paese. Sappiamo che un mafioso esce dall’organizzazione solo con la morte o col tradimento. Io penso che chi aiuta la giustizia vada premiato, così come era l’idea di Giovanni Falcone.

 

Elisa Campisi

SONO GIORNALISTA PRATICANTE PER MASTERX. MI INTERESSO DI POLITICA, ESTERI, AMBIENTE E QUESTIONI DI GENERE. SONO LAUREATA AL DAMS (DISCIPLINE DELL’ARTE DELLA MUSICA E DELLO SPETTACOLO), TELEVISIONE E NUOVI MEDIA. HO STUDIATO DRAMMATURGIA E SCENEGGIATURA, CONSEGUENDO IL DIPLOMA TRIENNALE ALLA CIVICA SCUOLA DI TEATRO PAOLO GRASSI.

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