Un sintetico è per sempre
Ma come nascono i diamanti artificiali?

Per sempre e per tutti. Il prodotto oligarchico per eccellenza cede al fascino democratico e si fa indossare senza far piangere il conto corrente. Il migliore amico delle donne, come cantava Marilyn, allarga il suo cerchio di amicizie trasformandosi da prodotto di elité a merce alla portata di chiunque. La popolarità dei diamanti sintetici continua a crescere e, se nel mercato delle pietre dure il solitario artificiale rappresenta solo il 3%, nei prossimi due anni arriverà all’8% (fonte Frost & Sullivan). A discapito del diamante naturale, che nell’arco di 10 anni – dal 2006 al 2016 – ha visto una decrescita del 24%. Secondo alcune stime, infatti, le 50 miniere commerciali del mondo potrebbero ridursi a 14 entro il 2040: i diamanti si formano in miliardi di anni a centinaia di chilometri sotto la superficie terrestre, prima di essere spinti fuori dal mantello del pianeta dalle eruzioni vulcaniche e portati alla luce dai minatori. Se da una parte i millenni che passano e la forza della natura non fanno che accrescere la preziosità delle pietre, dall’altra i diamanti diventano così rari e costosi da rendere necessaria la concorrenza sintetica per impedire al mercato di soccombere. Per dare qualche numero, secondo un rapporto di ricerca di Transparency, il mercato mondiale dei diamanti sintetici è stato valutato nel 2016 a 16,04 miliardi di dollari e il tasso annuo di crescita composto (Compounded Average Growth Rate) tra il 2017 e il 2025 è stimato al 7%.

I sette nani e i diamanti insanguinati. Non c’è da sorprendersi se grazie all’aumento della produzione, alla diminuzione dei prezzi e all’immagine etica costruita attorno al sintetico, la preziosità del naturale, insita nella sua rarità, cade in secondo piano. Rispetto al solitario, la pietra costruita in laboratorio costa dal 50% al 90% in meno pur avendo la stessa composizione chimica e risponde meglio ai temi etici e ambientali. Per ogni diamante indossato dobbiamo mettere in conto un buco permanente nel terreno e fiumi di carburante impiegato per i trasporti, tra aerei e montacarichi. Per evitare poi di acquistare una pietra macchiata col sangue di minatori bambini ridotti in schiavitù dai trafficanti, mettersi al dito un diamante sintetico sembra l’unica scelta possibile. Nonostante il diamante cresciuto in laboratorio non sia una novità (il primo risale al 1954) la presa di coscienza del consumatore socialmente impegnato ha fatto registrare un aumento di richiesta. Sì al diamante, ma quello “coltivato”, frutto di un nuovo modo di rispettare l’ambiente da parte dell’industria e, soprattutto, promotore di battaglie sociali che rinnegano lo sfruttamento delle popolazioni africane. Anche il candore dei sette nani di Biancaneve, che a ritmo di “ehi-ho” picconavano i preziosi in miniera, è crollato di fronte alle violazioni dei diritti umani rese tristemente celebri sul grande schermo dai diamanti insanguinati delle guerre africane. Così settant’anni di filmografia (Snow White and the Seven Dwarfs è del 1937) sono stati spazzati via dall’interpretazione di Leonardo DiCaprio in Blood Diamonds, il quale dopo che in Titanic aveva deciso di ritrarre l’amata vestita solo del “cuore dell’Oceano”, un rarissimo diamante blu tagliato a forma di cuore, è passato poi a ricoprire i panni del contrabbandiere.

 

In realtà nel 2003, tre anni prima l’uscita della pellicola di Edward Zwick, veniva firmato un accordo di certificazione volto a garantire che i profitti ricavati dal commercio di diamanti non venissero usati per finanziare guerre civili. Il Kimberley Process è così che è stato chiamato, è diventato uno strumento per tracciare i diamanti, un accordo etico messo a punto e approvato con lo sforzo congiunto dei governi di numerosi Paesi e di multinazionali produttrici, che non sempre ha portato ai risultati sperati. La concorrenza dei sintetici potrebbe essere un incentivo per i produttori di diamanti a rafforzare i processi di certificazione. Dove il Kimberly Process ha mancato, potrebbe arrivare la tecnologia. I diamanti artificiali, infatti,  oltre a sollevare dalla preoccupazione dell’indebitamento da proposta di matrimonio, eliminano alla base qualsivoglia forma di sostegno, anche inconsapevole, alla violazione dei diritti umani.

Prodotti di laboratorio Dunque artificiale sia. Sì, ma come? Bastano un po’ di idrogeno, un’aggiunta di carbonio, un macchinario di precisione, un po’ di energia elettrica e il diamante è fatto. Con la tecnologia CVD, chiamata deposizione chimica da vapore «le onde elettromagnetiche scindono il carbonio e l’idrogeno di cui il metano è composto – spiega la direttrice responsabile del Laboratorio di Analisi dell’Istituto Gemmologico Italiano, Loredana Prosperi – Sotto c’è una “piastra” calda dove si trovano dei piccoli cristalli di diamante. Il carbonio, che si è diviso, si muove in direzione dei cristallini e fa accrescere il minerale». Esiste anche la possibilità di riprodurre in laboratorio le pressioni e le temperature che si verificano in profondità nel sottosuolo: «Con il metodo HPHT (alta pressione ad alta temperatura), la polvere di grafite, la cui composizione è identica al diamante, perché è formata solo da carbonio, viene ridotta a stato liquido all’interno di una lega metallica di ferro e nichel. Si procede poi con il raffreddamento ad alta pressione (80 mila volte la pressione atmosferica, che è la stessa che c’è all’interno della Terra quando si forma un diamante) che permette la cristallizzazione» chiarisce Prosperi.

Le prime sintesi di diamanti risalgono agli anni ’40 per usi industriali e hanno alle spalle una lunga storia di fallimenti, frustrazioni e opportunità mancate. L’impresa viene raggiunta il 16 dicembre 1954 quando un gruppo di scienziati del laboratorio di ricerca della compagnia statunitense General Electric, di cui facevano parte tra gli altri F.P. Bundy e Tracy Hall, riesce nella prima sintesi riproducibile e commercialmente sostenibile di diamante artificiale. Le presse utilizzate erano il miglioramento delle prime macchine sviluppate da Percy Bridgman, premio Nobel 1946 per i suoi studi della fisica delle alte pressioni.

Quelle pietre non si avvicinavano minimamente alla qualità delle gemme degli anni ’80, ma solo nell’ultimo periodo i produttori di diamanti coltivati hanno iniziato a dare vita a preziosi che potevano competere con i diamanti naturali. Complice il miglioramento delle tecnologie, i costi di produzione sono calati e il prodotto è entrato in commercio a un prezzo piuttosto basso: possiamo trovare diamanti a 800 euro al carato, che diventano 400 per mezzo carato, dunque 200 per un quarto di carato. Queste pietre dominano già il mercato per uso industriale e con l’avanzare della tecnologia diventeranno più competitivi anche nel mercato della gioielleria. «Abbiamo analizzato diamanti sintetici anche 20 anni fa, ma erano pochissimi e realizzati a fini di studio. Solo negli ultimi tre anni ci siamo imbattuti in pietre commercializzate» racconta la direttrice, che prosegue «I diamanti sintetici che adesso arrivano in laboratorio per essere analizzati sono meno dello 0,1%, ma è una tendenza destinata a crescere, specie dopo che De Beers ha cominciato a commercializzare negli Stati Uniti una linea sintetica». Il grande gruppo americano che si occupa del rinvenimento di diamanti ha deciso di modificare la celebre pubblicità inventata nel 1947 – un diamante è per sempre – per riadattarla a Lightbox, il nuovo marchio di gioielli rigorosamente artificiali, a basso costo, con appeal di massa. Diamanti identici a quelli formatesi a 200 km di profondità ed estratti dalle miniere, ma prodotti in laboratorio.

Gioielli scientifici. In un edificio industriale, a una ventina di chilometri dal centro di Roma, imponenti macchinari replicano la pressione e la temperatura che si trovano nelle profondità della Terra, e producono, in poche settimane, quello che la natura crea in miliardi di anni. Questo posto è il Centro Enea di Frascati dove il team di ricercatori diretto dal prof Ugo Besi Vetrella, è capace di plasmare un sintetico in laboratorio.

Al Centro ricerca Enea di Frascati un macchinario per la fusione nucleare

È uno dei pochi istituti in Italia in cui i diamanti sintetici non vengono fabbricati per farne collane e anelli, ma per scopi scientifici. Si è scoperto che questo materiale ha delle applicazioni nel campo dell’elettronica, del settore biomedico e in quello dei dispositivi per rilevazioni di radiazioni. Strumentazione elettronica, tipo transistor a effetto di campo, o rivelatori di radiazioni al diamante sono molto efficaci, perché più resistenti ad alte temperature e alle radiazioni rispetto ai materiali comunemente usati fin ora. Per questi piccoli ‘gioielli’ di resistenza e sensibilità, si aprono nuovi settori di applicazione, alcuni dei quali sono già realtà come l’estrazione di petrolio, gas e minerali e i rivelatori di radiazioni per pazienti e medici nei centri di radioterapia per la cura di tumori. Vengono inoltre usati in prodotti abrasivi, strumenti di taglio e lucidatura e nei dissipatori di calore. Ma perché preferire un diamante sintetico a uno naturale? «Un diamante artificiale è più diamante di uno naturale, nel senso che è più puro – ci spiega il fisico Vetrella -Ottenere un cristallo di grandi dimensioni con una composizione perfetta è impossibile in natura. Essendo quello del diamante naturale un processo casuale è difficilissimo trovare due pietre che si comportano nello stesso modo. Se produco due dispositivi, come dei semplici rivelatori di radiazioni, usando due diamanti naturali, difficilmente avrò lo stesso tipo di risposta. La riproducibilità è fondamentale in laboratorio».

Dai diamanti non nasce niente? Mentre Fabrizio De André, nella famosa canzone Via del Campo si scervellava nella ricerca di una parola che facesse rima con sente, le strumentazioni non erano ancora così avanzate da dargli torto, o quanto meno da fargli supporre il contrario. Oggi nemmeno più l’anulare può non fare i conti con i risultati che le nuove tecnologie stanno generando. Praticamente indistinguibili ad occhio nudo, i sintetici si riconoscono infatti solo dopo un’attenta analisi spettroscopica, perciò è impensabile classificarli come si fa con i naturali. Le quattro caratteristiche (peso o carato, chiarezza, colore, taglio) che determinano il valore di un diamante hanno senso solo se applicate a un naturale, mentre per un prodotto di laboratorio basta sapere come è stato tagliato e quanto pesa. Anche se entrambi dureranno per sempre sono in molti a pensare che i diamanti sintetici non comprometteranno il valore di quelli naturali: «Il diamante è un materiale che si forma in natura in migliaia di anni e in determinate condizioni. Una pietra realizzata in laboratorio in poche settimane non può competere con il fascino del naturale – afferma Prosperi – Oggi un pomodoro posso crearlo con una stampante 3d, ma se devo mangiarlo ho bisogno della pianta». I diamanti naturali sembrano tutti uguali, un po’ come le impronte digitali delle persone, eppure ognuno di noi lascia un segno diverso dall’altro. Allo stesso modo queste pietre preziose hanno delle singolarità che le rendono uniche. Per citare il fisico inglese Sir Frederick C. Frank, “I cristalli sono come le persone: sono i loro difetti che li rendono interessanti”. Lo stesso non si può dire del sintetico, che fa della serialità il suo cavallo di battaglia: «La pietra artificiale ha aperto nuove opportunità  commerciali, ma anche di indossabilità per una più grande utenza» spiega Donatella Zappieri, consulente del gioiello, che tiene seminari in università a Milano e Ginevra. Tanti, tutti uguali e destinati alla grande distribuzione. Questi oggetti brillanti della modernità sono diventati dei veri e propri prodotti di massa. Possiamo dunque dirlo: il diamante è ufficialmente entrato nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.

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