The Last of Us Part 2, quando il videogioco si trasforma in polveriera politica

In un mondo devastato da una temibile pandemia, i pochi umani superstiti lottano strenuamente per sopravvivere. Non si tratta di uno scenario apocalittico da post Covid-19, ma della premessa narrativa di The Last Of Us, oggi quanto mai ironicamente attuale.

A una settimana esatta dal lancio, The Last Of Us Part 2 è ancora saldamente al centro del dibattito della comunità videoludica e sembra destinato a rimanervi a lungo. Non tanto per la sua ambientazione, quanto per la parabola che lo ha contraddistinto: da titolo più atteso dell’anno a inesauribile fonte di polemiche.

Rispetto all’acclamatissimo originale, uscito sette anni fa, il sequel ha segnato un deciso cambio di rotta. Le scelte della casa di sviluppo Naughty Dog relative a trama e personaggi hanno inevitabilmente diviso i giocatori, tra chi reputa il secondo atto un capolavoro al pari del suo predecessore e chi invece ne è rimasto aspramente deluso.

Le legittime divergenze tra gli appassionati, però, costituiscono solo una parte del polverone che si è sollevato intorno al videogioco. La diatriba più accesa nasce da questioni politiche e sociali che, negli ultimi anni, stanno conquistando sempre più spazio nei media d’intrattenimento, dal cinema alle serie televisive.

Le controversie

 

12 giugno 2018, Los Angeles Convention Center. All’Electronic Entertainment Expo (E3), fiera annuale in cui i produttori di videogiochi presentano le proprie novità, è il momento della conferenza di Sony e di uno dei trailer più attesi, quello del secondo capitolo di The Last Of Us. Tra le scene mostrate ve ne è una destinata a far parlare di sè: Ellie, l’ormai cresciuta co-protagonista del primo gioco, bacia in modo appassionato un’altra ragazza.

Momento rivoluzionario per l’industria videoludica? Non in senso assoluto, perché nell’ultimo decennio le tematiche LGBT sono state rappresentate in diversi titoli, tanto in produzioni indipendenti come Gone Home o Life is Strange, quanto in blockbusters come Mass Effect, Overwatch o Dragon Age: Inquisition. La stessa sessualità del personaggio di Ellie, a esser precisi, era già stata esplorata con tatto ed eleganza già nel primo capitolo di The Last Of Us e nella sua espansione.

Probabilmente, però, quel trailer era la prima occasione in un gioco dalla popolarità assoluta toccava queste tematiche in modo così maturo e con tale enfasi. Così, al rilascio del filmato su internet, Naughty Dog fu accusata da alcuni utenti di voler promuovere un chiaro manifesto politico, a discapito della qualità del prodotto. Una scena analoga a quella che si verificò con l’uscita dell’ottavo film di Star Wars, The Last Jedi, “reo” di aver puntato su un cast il più possibile vario e multietnico.

Un fenomeno sociale
Neil Druckmann, direttore creativo di The Last Of Us e vicepresidente della casa di produzione Naughty Dog.

Entrambi i casi rientrano in un fenomeno molto più ampio. Viviamo in un’epoca in cui la crescita esponenziale del politicamente corretto, della cultura della cancellazione e del fervente attivismo sociale si scontrano costantemente con il terrore di vedere soffocata la libertà d’espressione. Un conflitto tra posizioni ideologicamente contrapposte e inconciliabili, che partendo dal web sta contagiando progressivamente tutti gli altri media. Un esempio recente di questa deriva è quanto accaduto a Via Col Vento, pellicola tra le più celebri della storia di Hollywood, temporaneamente rimosso dai cataloghi HBO in quanto troppo ricco di «pregiudizi etnici e razziali».

Le polemiche relative a The Last Of Us Part 2 sono esplose definitivamente lo scorso aprile, in seguito alla diffusione di alcuni spoiler riguardanti punti focali della trama e alcune scene centrali della storia. Ancora una volta, diverse critiche si sono discostate dall’esperienza puramente videoludica per concentrarsi temi di tutt’altra natura.

Lo sceneggiatore e vicepresidente di Naughty Dog Neil Druckmann è stato preso di mira per le sue posizioni politiche e per gli apprezzamenti rivolti in passato alle idee di Anita Sarkeesian, nota e controversa femminista. L’azienda è stata accusata di crunching, pratica che prevede lo sfruttamento intensivo dei dipendenti a ridosso della pubblicazione di un prodotto, con orari massacranti e straordinari non retribuiti. La software house è stata tacciata di pubblicità ingannevole per le modifiche apportate ad alcuni trailer e il gioco è stato criticato persino dalle stesse comunità LGBT che si prometteva di rappresentare. Una cacofonia di accuse, controaccuse, illazioni e fake news degna di una campagna presidenziale.

«Is this for the players?»
Ellie, protagonista di The Last Of Us e volto del secondo capitolo del gioco.

The Last Of Us Part 2 è un titolo estremamente ambizioso e polarizzante. Se da un lato la critica si è espressa quasi unanimemente a favore dell’opera, il pubblico si è rivelato totalmente diviso tra la venerazione e la bocciatura. Ma a prescindere dal frutto del lavoro di Naughty Dog, che soggettivamente può essere più o meno apprezzato, la vicenda che ha circondato uno dei giochi più attesi di sempre ci ha ricordato che neanche i nostri passatempi preferiti sono ormai immuni alla dittatura del politically correct e della sua altrettanto feroce controcultura.

Mentre l’attuale generazione di console si avvia verso il tramonto, il «This is for the players» di Sony suona già come un nostalgico ricordo. Di un tempo in cui quello dei videogiochi sembrava realmente un mondo dedicato a noi giocatori, in cui poter evadere e sentirsi parte di un’unica comunità priva di pregiudizi.

Indipendentemente dalle proprie ideologie. Dal colore della propria pelle. O da chi scegliamo di amare.

Ivan Casati

Nasco nel marketing e mi riscopro nel giornalismo, sempre con un unico, grande filo conduttore: la mia passione per lo sport. Il mio sogno è raccontarlo, con la penna e con la voce.

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