La crisi in Medio Oriente e la guerra civile in Libia occupano da settimane le pagine dei quotidiani nazionali e internazionali. Conflitti che preoccupano i governi, ma soprattutto i cittadini spaventati dalla possibilità che uno scontro possa colpirli direttamente o indirettamente. C’è chi parla addirittura di una terza guerra mondiale con conseguenze ancora più catastrofiche di quelle del 1914-1918 e del 1939-1945.
Parlare però di un nuovo conflitto mondiale è forse eccessivo e impegnativo. «Ho l’impressione che siamo ancora a un livello di sole provocazioni e che sia veramente prematuro parlare di guerra mondiale», spiega il professore di Storia Contemporanea dell’Università IULM di Milano Guido Formigoni. Prima della crisi Medio-orientale e libica, ci sono stati altri momenti che hanno spinto molti a credere che un conflitto fosse vicino: dall’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 che ha portato alla guerra in Afghanistan, iniziata nel 2001 e ancora in corso, a quella in Iraq, iniziata nel 2003 e conclusa nel 2011 con la cattura e l’esecuzione del leader Saddam Hussein, passando per le proteste in Medio-oriente del 2010-2011 conosciute poi con il nome primavera araba che hanno scatenato la guerra civile in Siria che spinge alle dimissioni del presidente al-Assad.
«L’attacco del 2001 – spiega il professore – ha avviato una fase di turbolenza in tutto il Medio-Oriente. Rispetto ai due conflitti mondiali però sussiste una differenza: il controllo da parte degli Stati Uniti d’America che negli anni è sempre minore e che attualmente è meno visibile e operativo». Il motivo probabilmente è da ritrovare nelle scelte dei precedenti presidenti: Barack Obama aveva deciso di avviare una politica meno invasiva in Medio Oriente a causa soprattutto della fallimentare democratizzazione dell’area avviata da George W. Bush Junior e alla sempre minor dipendenza dal petrolio medio-orientale. Le scelte politiche del leader americano democratico hanno portato ad assumere un ruolo marginale soprattutto durante le primavere arabe dove sono stati soppiantati dalla Francia. «Se è vero che non c’è più un’egemonia unica o multipolare – precisa Formigoni – per controllare le fonti di conflitto locali, è possibile che ci possano essere incidenti che escano dal controllo e che possano dare vita a un conflitto più ampio, come successe nel 1914 a Sarajevo con l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando che ha scatenato la Grande Guerra».
L’uccisione del generale iraniano Quasem Soleimani potrebbe essere quasi considerato un atto di guerra anche se probabilmente la mossa «non è stata fatta, a mio parere, per parlare meno dell’impeachement – spiega il professore -. L’Iran è uno Stato che, nonostante i limiti economici, è molto solido soprattutto dal punto di vista militare perché ha una fitta rete di realtà sciite che lavoravano in Iraq, Siria e Libano. È una vera piccola potenza regionale. Trump non vuole veramente scatenare un conflitto, ma solo intimidire e tenere a bada l’avversario e cercare di ottenere quello che il suo predecessore voleva raggiungere con il negoziato». La paura più grande, per alcuni leader politici, è quella dell’arricchimento dell’uranio che però potrebbe essere letta come un’operazione politica. «Obama aveva tentato di disinnescare l’attività con un accordo sul controllo internazionale sul nucleare. Trump ha fermato la cosa. Io ho l’impressione – continua il docente – che siamo ancora a un livello di provocazione e sfida per intimidire l’avversario che è percepito come un problema da gestire in una certa zona del mondo. È pur vero che è una situazione che non dà garanzie di essere controllata».
Le altre potenze mondiali, Cina e Russia in primis, hanno e cercano di avere un ruolo marginale all’interno della crisi. «La Cina non è portata a inserirsi in certe dinamiche. La sua leadership è centrata sull’idea che quello che succede nel mondo deve essere rapportato alla possibilità di poterlo utilizzare o meno per gestire il loro continente. La Russia, per quanto Vladimir Putin ha ricostruito la struttura militare, è più interessata a consolidare i propri confini piuttosto che ampliare la sua influenza in Medio Oriente».
E l’Europa? Il continente continua ad attuare una politica incerta. L’Italia che, se prima aveva capisaldi di influenza solidi, a oggi deve attenersi alle scelte dell’Unione Europea e affrontare le sue frequenti crisi politiche che riducono il margine di azione. «L’Italia – afferma Formigoni – ha un problema di sistema. Passando da un governo all’altro non appare così solida da poter coltivare una posizione di un certo tipo in Medio Oriente. Negli anni ’70-’80 l’influenza era molto forte, ma è andata via via diminuendo. Questo ruolo avrebbe dovuto essere poi ricoperto dall’Unione Europea, ma così non è stato. L’egemonia politica economica di Francia e Germania ha messo ai margini l’Italia soprattutto nelle vicende libiche».
La guerra civile libica ne è un esempio. Il fallimentare incontro a Roma tra Haftar e Serraj, organizzato dal premier Giuseppe Conte ne è una dimostrazione. «Reinserirsi nel gioco – sostiene Formigoni – con mezzi un po’ deboli non sembra lungimirante. La mancata riunione è simbolo di questa debolezza. La carta che si dovrebbe giocare di più è quella di costruzione di una posizione propria come Europa che possa poi interloquire con Trump e gli altri. In Italia, soprattutto, manca una rete di esperti che era presente nella prima Repubblica e che pare non essere più all’opera».