Srebrenica, 30 anni dopo i morti non trovano ancora pace

L’11 luglio del 1995, 30 anni fa, 8000 tra ragazzi e uomini bosgnacchi (i bosniaci musulmani) persero la vita nella città bosniaca di Srebrenica. Diverse unità dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina occuparono la città, uccisero migliaia di bosniaci e seppellirono i corpi occultando i cadaveri. Ancora oggi si sta cercando di identificare i corpi di quella che è stato il primo genocidio in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale.

Uno Stato: tre etnie

Nel luglio del 1995 la guerra in Bosnia Erzegovina era cominciata da tre anni. Il Paese era abitato da tre gruppi etnici in base alla religione: i bosgnacchi musulmani, i serbi ortodossi e i croati cattolici.

Per diversi decenni la Bosnia aveva fatto parte della Jugoslavia socialista. Quando la Jugoslavia cominciò a disgregarsi la situazione peggiorò rapidamente. I bosgnacchi e i croati volevano l’indipendenza, mentre i serbi volevano rimanere nella Jugoslavia. Con questo scopo i serbi bosniaci crearono una propria regione autonoma dentro la Bosnia Erzegovina, chiamata Republika Srpska. Nella primavera del 1992 la Bosnia dichiarò la sua indipendenza e così iniziò la guerra.

Srebrenica: «Area sicura»
Ratko Mladic, capo dell’esercito della Repubblica serba di Bosnia

Nell’aprile del 1993 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò una risoluzione per dichiarare Srebrenica «area sicura» sotto la protezione dell’Onu. Essere una zona sicura significava, essenzialmente, accettare che gli unici a detenere armi e poterle usare in caso di estrema necessità fossero i Caschi blu. I quali sequestrarono molte (di certo non tutte) delle armi dei bosgnacchi, in cambio della promessa di difenderli.

Nei primi giorni di luglio del 1995 l’esercito della Republika Srpska iniziò un’offensiva per conquistare Srebrenica, allora difesa da un piccolo contingente di soldati nederlandesi delle Nazioni Unite, il Dutchbat. Il comandante del battaglione, Thom Karremans, chiese più volte alla NATO di intervenire per bombardare le posizioni serbe, ma le sue richieste non vennero accolte. L’11 luglio i soldati serbi, comandati dal generale Ratko Mladić, entrarono a Srebrenica senza incontrare resistenza.

Un genocidio non prevenuto

Secondo il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia tra i 7mila e gli 8mila prigionieri bosgnacchi vennero uccisi in una settimana. I corpi vennero sepolti e occultati in diverse fosse comuni. Questa fu una delle motivazioni che spinsero la Corte penale internazionale a definire «genocidio» ciò che successe a Srebrenica. Tuttavia nel 2007 la Corte di Giustizia Internazionale stabilì che la Serbia era colpevole di non aver prevenuto il genocidio, ma escluse un suo ruolo diretto.

Le conseguenze

La notizia di quanto era avvenuto a Srebrenica ebbe conseguenze importanti sull’andamento della guerra: fu una delle ragioni che spinse la NATO a intervenire direttamente, con dei bombardamenti contro l’esercito serbo in Bosnia Erzegovina, dopo anni in cui i Paesi occidentali erano stati molto restii all’idea di impegnarsi direttamente.

Dopo la fine della guerra, diversi rappresentanti dei serbi di Bosnia Erzegovina e militari dell’esercito di Republika Srpska furono condannati per crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi anche durante la conquista di Srebrenica, inclusi Ratko Mladić e Radovan Karadžić, che all’epoca era presidente della Republika Srpska.

I corpi senza pace

Anche identificare i morti è stato un processo molto complicato. Per anni se n’è occupata la Commissione Internazionale per le Persone Scomparse (ICMP), incrociando il DNA estratto dalle ossa ritrovate con quello dei familiari delle persone dichiarate scomparse dopo l’11 luglio del 1995. Ogni 11 luglio i nuovi corpi identificati vengono sepolti nel grande memoriale a Potočari, davanti all’edificio dove stazionava il Dutchbat, nel corso di una cerimonia per commemorare le vittime. Quest’anno sono sette.

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