Ancora proteste in diverse parti del mondo. Le piazze si sono riaccese: dal Sud America a Hong Kong, senza tralasciare il Medio Oriente. I fermenti colpiscono meno la Vecchia Europa e l’America Settentrionale, quei continenti che erano stati la culla del ’68, e che oggi intervengono nelle rivoluzioni in atto.
«Dentro le crisi attuali abbiamo elementi di lungo periodo – spiega Massimo De Giuseppe, professore di Storia contemporanea all’Università Iulm di Milano -, contraddizioni irrisolte, residui della guerra fredda e una nuova ondata di neo-razzismi, violenze e radicalismi». Uno «scenario globalizzante dai risvolti locali», come lo definisce il docente.
In Cile, lo scorso ottobre, è stata approvata una legge che aumentava il prezzo del biglietto della metropolitana della capitale, Santiago, facendolo passare da 800 a 830 pesos nelle ore di punta. Da quel momento i passeggeri hanno iniziato a saltare i tornelli e – quando le stazioni della metropolitana sono state chiuse e il servizio è stato sospeso – a strappare via le serrande e distruggere le stazioni. «Stanno venendo al pettine i nodi irrisolti – continua il professore –. Nonostante esista un’ampia fascia media, la società cilena vive in condizioni di povertà estrema. Il sistema scolastico è totalmente incentrato su meccanismi privatistici e tutto ciò è molto escludente. È inevitabile, dunque, che si sia arrivati a una fase di implosione, all’interno di un Paese che ha ancora su di sé le ferite della stagione dittatoriale».
Simbolo della protesta è l’attivista El Mimo, trovata morta impiccata con segni di violenza in una strada della capitale cilena. «Le donne hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nelle proteste della società civile sudamericana – afferma De Giuseppe -. Sono state tante le protagoniste di movimenti, come ad esempio le madri di Plaza de Mayo, che pacificamente hanno rivendicato la scomparsa dei loro figli per ottenerne la restituzione. El Mimo si colloca in questo filone che si consolida negli anni 2000, abbattendo gli stereotipi a cui siamo abituati». In Sud America, infatti, le donne sono protagoniste sia nella denuncia di soprusi, violenze e sparizioni, sia nelle reazioni politiche e nell’attivismo ecologico.
Quello che accomuna i movimenti di protesta in Ecuador, Perù e Bolivia è «l’insieme dei tentativi riformisti di processi di divaricazioni sociali forti, accelerati dalla migrazione selvaggia e dall’impatto delle rimesse che producono effetti distorsivi. Inoltre – precisa il docente – in America Latina è venuta a mancare la base religiosa del cattolicesimo». Negli ultimi 25 anni sono cresciute le chiese protestanti non tradizionali che si basano su un’idea del culto della teologia della prosperità: chi riesce a diventare ricco ottiene le grazie di Dio. «Sono chiese che hanno un forte fattore di rottura della comunità: entrare in queste confessioni significa di fatto abbandonare la collettività».
Anche in Brasile si respira aria di tensione. Se nel corso della presidenza di Lula la povertà è stata drasticamente ridotta, è aumentata la corruzione interna. «Negli anni successivi la classe media è entrata in un clima di contestazione: la società, che si stava arricchendo, ha iniziato a chiedere più trasparenza. Per questo motivo è emersa l’immagine dell’uomo forte di destra alla Bolsonaro» afferma il professore.
La crisi economica venezuelana, unita allo scontro politico tra il presidente Maduro e l’oppositore Guaidò, ha fomentato le proteste nel Paese. Una situazione che vede la comunità internazionale divisa e dove, come sempre, gli Stati Uniti giocano un ruolo importante. «Trump ha preso una posizione netta. La mia sensazione e che c’è un’assenza di un progetto rispetto all’America Latina da parte di Washington. Non c’è una chiara politica americana nei confronti del Sud America».
Ancora meno certa è stata quella della presidenza Obama nei confronti del Nord Africa dove, nel 2010, sono scoppiate diverse rivolte conosciute come Primavera Araba. «L’idea era provare a esportare la democrazia con politiche di soft-power. Il problema è che questi processi vanno portati in fondo – spiega De Giuseppe -. Nel caso della Primavera Araba, se l’Onu fosse stato un interlocutore forte, il processo sarebbe stato gestito attraverso programmi di governo democratici. Oggi però viviamo un momento dove l’Organizzazione delle Nazioni Unite è più debole e senza una governance multilaterale e globale. Anche in America Latina si sta pagando questa fragilità. I processi di democratizzazione funzionano solo se hanno un supporto multilaterale».
I tumulti delle piazze non riguardano però solo il Sud America. Recentemente anche a Hong Kong è scoppiata la protesta. «È un pezzo della partita tra Stati Uniti e Cina che assume caratteri locali, come è accaduto negli anni ‘50 in Tibet» sentenzia il docente. I movimenti sono iniziati il 9 giugno scorso contro un emendamento alla legge sulle estradizioni, ufficialmente ritirata il 24 ottobre, e si sono trasformati in un’opposizione all’ingerenza sempre più accentuata di Pechino nell’autonomia di Hong Kong. Nel corso di questi mesi le forze di polizia hongkongesi hanno utilizzato armi da fuoco e idranti contro i manifestanti e il 27 novembre il presidente statunitense Donald Trump ha firmato la “Legge sui diritti umani e la democrazia a Hong Kong”: un documento che sancisce una presa di posizione diretta su Hong Kong da parte degli Stati Uniti.
Le piazze ancora non si sono placate. Il clima rimane caldo e gli Stati Uniti e le potenze europee giocano un ruolo sempre più importanti nei precari equilibri della scacchiera internazionale.