Usare la forza per annettere la Groenlandia e riconquistare il Canale di Panama. È questa l’ultima provocazione (o folle mira strategica, sarà solo il tempo a dirlo) di Donald Trump a meno di venti giorni dall’insediamento alla Casa Bianca.
Dichiarazioni ai limiti della fantapolitica e totalmente inedite. Per capirne la gravità, basti pensare che la Groenlandia è parte di un Paese membro della Nato, la Danimarca. Ipotesi remote, ma che, almeno teoricamente, nascondono possibili mire economiche e geopolitiche.
Groenlandia e Danimarca
Nel 1953, dopo essere stata una colonia dal 1721, la Groenlandia diventa ufficialmente parte del Regno di Danimarca con uno status simile a quello di una contea e una rappresentanza nel Parlamento di Copenaghen.
Nel corso del tempo, l’isola ha acquisito sempre più margini di governo e, ormai, Copenaghen mantiene competenze solo su politica estera e difesa. Oggi, è il territorio autonomo più grande del mondo e fa parte del regno insieme alle Isole Fær Øer, altro territorio danese semi indipendente.
Una caratteristica peculiare riguarda il fatto che mentre la Danimarca è un Paese membro dell’Unione Europea, la Groenlandia scelse di uscire dalla Comunità economica europea con un referendum nel 1985, diventando l’unico esempio di uscita dall’Europa prima della Brexit.
Fatte queste doverose premesse, il tema dell’indipendenza dalla madre patria è sempre stato presente. Una legge danese prevede anche il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione dei groenlandesi e la possibilità di dichiararsi indipendenti con un referendum.
I rapporti tra i due territori si sono inclinati violentemente nel 2022, quando un podcast della TV pubblica danese ha rivelato che tra il 1966 e il 1970 il governo centrale avrebbe impiantato spirali contraccettive a circa 4.500 donne inuit groenlandesi, pari alla metà delle donne fertili della popolazione, proprio con l’obiettivo di ridurre le nascite indigene.
Oggi, tutti i principali partiti groenlandesi sono a favore dell’indipendenza come del resto anche quello del primo ministro Mùte Egede, leader del partito della comunità Inuit, Inuit Ataqatigiit, che recentemente ha rilanciato l’idea di un referendum.
Perché agli USA interessa la Groenlandia?
Le dichiarazioni di Trump su un possibile acquisto della Groenlandia sono arrivate in concomitanza con il possibile riaprirsi della via del referendum.
Il Tycoon già nel 2019 aveva rilanciato l’idea di acquistare l’isola. Si tratta, infatti, di una sorta di punto fermo di Washington da ormai più di un secolo. Il primo tentativo di acquistare la Terra Verde risale al 1867, quando il segretario di Stato USA William H. Seward, protagonista dell’acquisto dell’Alaska dalla Russia degli Zar, intavolò una trattativa poi bloccata dal Congresso. Opzione rilanciata poi nel 1946 quando l’amministrazione Truman tentò di acquistare il territorio offrendo 100 milioni di dollari.
I motivi dell’interesse a stelle e strisce della Groenlandia sono vari. In primis, è una questione geografica. L’isola appartiene all’America Settentrionale ed è una vera e propria porta sull’Artico di fronte alla Siberia. Lo scioglimento dei ghiacci sta trasformando la rotta artica in una preziosissima nuova via commerciale ricca di risorse naturali. Il territorio stesso dell’isola è ricco di risorse: idrocarburi, terre rare, uranio, ma anche oro, platino, zinco, nichel e minerali. Un’opportunità che non è passata inosservata a Pechino, dove ormai da anni si pianifica un aumento della presenza nella regione.
In Groenlandia, inoltre, gli Stati Uniti hanno costruito durante la guerra fredda la base aerea di Thule, che svolse un ruolo fondamentale per l’installazione di piattaforme per il lancio di missili balistici e l’uso di radar. Un interesse militare già rilanciato nel 2023 quando Washington siglò un accordo con la Nato per rinforzare la presenza atlantica nella regione.
Nonostante le speculazioni, resta comunque difficile immaginare il passaggio della Groenlandia sotto la bandiera a Stelle e Strisce. La questione dell’indipendenza non implica necessariamente una vendita agli Stati Uniti. Come riportato dal Corriere della Sera, l’analista danese Steen Kjaergaard sostiene che la strategia del Tycoon sia quella di costringere la Danimarca a dare priorità alle sue capacità militari nell’artico senza dover rimettere nelle mani americane il finanziamento.
E il Canale di Panama?
La questione del Canale di Panama segue una direzione diversa. Gli Stati Uniti acquisiscono i diritti di costruzione dai francesi nel 1904 per poi completare l’opera nel 1914. Da quel momento in poi, il canale resta di proprietà americana fino al 31 dicembre 1999, quando diventa della Repubblica di Panama. Il passaggio si deve agli accordi stipulati da Jimmy Carter, allora presidente americano, e Omar Torrijos, omologo panamense, del 1977 che prevedevano un trasferimento graduale del controllo.
A Mar a Lago Trump ha ribadito che il Canale di Panama è vitale per gli USA, ma che attualmente è sotto attacco commerciale cinese, per poi sottolineare come la rinuncia di Carter sia stata un grandissimo errore che costò al presidente le elezioni successive. Minacce ricevute a Panama, ma glissate in maniera cauta e moderata dal presidente José Raul Mulino che ha rimandato la discussione a dopo l’insediamento.
L’importanza strategica di un canale come quello di Panama è sotto gli occhi di tutti. Ma la questione interessante della dichiarazione è la presenza economica cinese. Pechino ha ampliato la sua presenza nella zona diventando il secondo maggiore utilizzatore del passaggio dopo gli Stati Uniti. Inoltre, sono numerose le aziende cinesi che operano nella regione, con investimenti che, secondo alcune stime, superano i 2,5 miliardi di dollari.
A testimonianza del buon rapporto tra i due Paesi, anche la scelta di Panama di interrompere le relazioni diplomatiche con Taiwan nel 2017 per rafforzare unicamente i rapporti con Pechino.