Segregati per la loro salvezza: la persecuzione degli hazara pakistani

Da quasi vent’anni vengono decimati da attacchi terroristici. Ora, per proteggerli, il governo li ha segregati in due quartieri di Quetta. Gli hazara della città, un centro da 2,2 milioni di abitanti nel Sud-Ovest del Pakistan, sono musulmani sciiti in un paese a vasta maggioranza sunnita. Dall’inizio degli anni 2000, estremisti di altre correnti dell’Islam «hanno reso orfani i nostri bambini e vedove le nostre donne», come ha raccontato alla Bbc Daoud Agha, presidente della Conferenza Sciita del Belucistan, la più grande regione del Pakistan.

I PRIMI ATTACCHI NEL 2001 – L’inizio della persecuzione viene fissato il 9 febbraio 2001, quando il gruppo suprematista sunnita Lashkar-e-Jhangvi attaccò un furgone e uccise nove hazara. Due anni più tardi l’attacco alla moschea di Quetta, in cui cinquanta persone persero la vita durante la preghiera del venerdì. Il 2 marzo 2004, ancora Lashkar-e-Jhangvi sterminò 60 persone durante una processione. Nel 2010, furono 73 le vittime di un attacco durante una manifestazione organizzata dagli sciiti per esprimere solidarietà ai palestinesi. 115, invece, quelle delle quattro bombe esplose a distanza di pochi minuti nel gennaio 2013.

Quetta dopo un attentato del 2013

IL PREZZO DELLA SICUREZZA – Si stima che il cimitero di Mari Abad, quartiere hazara nella parte orientale di Quetta, ospiti oltre mille corpi di persone uccise da attacchi terroristici. Solo nel 2013, i morti furono oltre 200. Cifra scesa, negli ultimi anni, fino a una dozzina nei primi undici mesi del 2017. Il prezzo da pagare per la sicurezza, però, è stato elevatissimo. Per arginare la violenza, le autorità pakistane non hanno trovato soluzione migliore che costruire muri sulle strade per Mari Abad e Hazara Town, l’altro quartiere a maggioranza hazara. Chi vuole raggiungerli deve passare per posti di blocco. «Certo, la violenza è diminuita», conferma un residente della via Alamdar, nei pressi del cimitero, in passato teatro di molti attentati. «Ora, però, non possiamo andare da nessuna parte. Non possiamo fare affari. Viviamo in una gabbia. Se un governo non è in grado di fermare una manciata di terroristi, che razza di governo è?».

«Non possiamo andare da nessuna parte. Non possiamo fare affari. Viviamo in una gabbia»

I DISCENDENTI DI GENGIS KHAN – Gli hazara, di origini mongole, sono stati per secoli il gruppo etnico predominante in Afghanistan. Secondo la leggenda, sarebbero i discendenti dell’armata di Gengis Khan, che invase l’area nel XIII secolo. E proprio i loro tratti asiatici, che li rendono facilmente identificabili, hanno agevolato il compito dei loro persecutori. Oggi, dopo quasi 500 anni di oppressione, gli hazara costituiscono meno di un decimo della popolazione. La più recente pulizia etnica ai loro danni fu operata dai talebani, che nel 2001 eliminarono i superstiti nella valle di Bamiyan, appena prima della distruzione dei Buddha scavati nelle rocce. Alcune comunità, per questo e molti altri episodi, si stabilirono in altri paesi della regione, soprattutto in Iran e Pakistan. Come quella di Quetta, che conta almeno 600.000 persone.

IL MERCATO TRA LE TOMBE – Un tempo, gli hazara possedevano buona parte dei negozi del più grande bazar della città. Oggi, quasi tutti i commercianti sono stati costretti a trasferirsi nei due ghetti. A Mari Abad, il mercato principale è collocato nell’unico grande spazio a disposizione: il cimitero. Luogo che è diventato, col tempo, il primo polo della vita sociale hazara: molti lo scelgono per passeggiare con i figli e i nipoti, altri per praticare il Sang Girag, un gioco con le pietre. «Il cimitero offre alla gente un’area sicura», ha spiegato Dawn, il principale quotidiano pakistano di lingua inglese. «È circondato su tre lati dalle montagne, e da lì le strade portano direttamente alle case. Una volta, i visitatori erano appena una manciata. Ora, un’intera comunità trova qui la sua unica possibilità di evasione».

Il mercato nel cimitero di Quetta

IL PARKOUR – Molti ragazzi, in realtà, hanno trovato un’altra possibilità di sfogo, che sfrutta le stesse barriere che li hanno ingabbiati nei loro quartieri. È il parkour, disciplina metropolitana nata a Parigi, che consiste proprio nel percorrere tracciati disseminati di ostacoli urbani. «I genitori hanno paura di perdere i loro figli, non permettono loro di andare da nessuna parte», spiega Ali Reza, 16 anni. «Siamo come in prigione. Il parkour permette di dimenticare le preoccupazioni. Ti dà l’impressione di volare».

USCIRE, A TUTTI COSTI – Se muri e soldati bloccano chi vuole entrare nei quartieri hazara, nulla, in teoria, vieta alla minoranza di muoversi tra le sue due zone o di spostarsi in altre parti della città. Pochi, però, si azzardano a farlo. Ci ha provato Abdul Ghafoor, venditore di frutta e verdura, che in ottobre è uscito da Mari Abad con un camioncino per raggiungere un grossista nel centro della città. Partito con altre cinque persone, è tornato solo. «Sapevo che sarebbe stato pericoloso», ha raccontato alla Bbc, «ma nel nostro quartiere i vegetali sono molto più cari che in tutte le altre zone di Quetta. Durante il viaggio, all’improvviso l’auto si è fermata e ho sentito degli spari. Ho cercato di tirarmi su per capire cosa stesse succedendo. È stato allora che mi hanno colpito e ho perso conoscenza». Ghafoor, sopravvissuto a cinque proiettili, assicura che non lascerà mai più Mari Abad, né permetterà di farlo alla sua famiglia. Durante la sua convalescenza, i due figli hanno dovuto lasciare la scuola per sostituirlo nella sua attività.

E proprio l’impatto dell’isolamento sui giovani è una delle principali preoccupazioni dei leader hazara. Si teme infatti che la prossima generazione cresca senza potersi mischiare alle altre etnie della città. E già è crollato il numero di studenti hazara iscritti alle università di Quetta, tutte collocate al di fuori dei loro ghetti.

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