Il caso Noa e
l’informazione corretta
perché la qualità
serve ancora

Mercoledì 5 giugno nel mondo dell’informazione è scoppiata una piccola bomba, resa ancora più esplosiva dal contesto in cui si è sviluppata. La scelta dei termini è fondamentale, in un mestiere fatto di parole, specialmente quando si rischia di cadere nell’accusa di misinformazione. L’eutanasia è un argomento delicato, cui si intrecciano spesso una serie di altri concetti e valori. Non è solo questione di essere fedeli o meno di un credo religioso. A volte nel giudizio si inseriscono stralci di esperienze personali, pareri più o meno documentati. Troppo spesso anche il “sentito dire”. Per quanto si provi, è difficile ragionare a mente fredda, perché si tratta di uno di quei temi che toccano il calore della vita.

La storia di Noa Pothoven, la diciassettenne olandese che domenica 2 giugno è morta nella sua casa, lo dimostra. Inizialmente i media internazionali e italiani hanno pubblicato la vicenda presentandola come un caso di eutanasia legale. Secondo i primi lanci di agenzia, arrivati nelle redazioni il pomeriggio del 4 giugno, la ragazzina avrebbe ottenuto il via per la morte assistita a causa della sua grave forma di depressione e anoressia, sopraggiunta nel corso degli anni dopo alcuni abusi sessuali. I giornali italiani, probabilmente spinti anche dalle notizie che già circolavano in rete pubblicate da testate estere, hanno rilanciato la vicenda, titolando sull’eutanasia legale che sarebbe stata concessa alla diciassettenne. L’Olanda infatti concede l’eutanasia legalmente, nei casi in cui ne sia riconosciuta la necessità. Questo accade anche per i minori tra i 12 e i 16 anni di età, previo consenso dei genitori e autorizzazione del medico curante.

La mattina del 5 giugno Marco Cappato, il politico e attivista italiano che si batte da anni per il diritto all’eutanasia, ha twittato contro i media italiani che hanno dato la notizia della morte di Noa senza verificare come siano andate veramente le cose. Stando a quanto raccontato da Cappato, non ci sono fonti che testimonino che lo Stato olandese abbia concesso l’eutanasia alla ragazzina. Quanto è accertato, invece, è che la giovane avesse fatto reale richiesta di procedere con le pratiche di fine vita, ma che l’Aja le avesse rigettato la richiesta. Era stata infatti giudicata troppo giovane per decidere consapevolmente, e avevano chiesto un’attesa di cinque anni per poter riesaminare il caso. Ma la giovane, ritenendo che aspettare il compimento dei 21 anni fosse un’agonia insopportabile e un prolungamento inutile alle sue sofferenze, ha deciso di smettere di mangiare e bere con il consenso della famiglia. La stessa Noa aveva pubblicato un post su Instagram, nel quale annunciava la sua decisione e che sarebbe morta nel giro di una decina di giorni.

Alla pubblicazione del tweet di Cappato si è scatenato un putiferio sui social network. Ancora una volta sono stati presi nel mirino i giornali, accusati di strumentalizzare le notizie e addirittura di pubblicarne di false.

Nel giro di qualche ora si sono susseguite le smentite e le correzioni, accuratamente segnalate, sui siti online delle più importanti testate italiane. Sono state fatte chiamate, ricerche approfondite e verifiche ulteriori sulla vicenda, per cercare di riportarne una versione più fedele. Il giorno successivo i direttori di alcune delle testate italiane più importanti hanno voluto rimarcare come sia andata realmente la vicenda tramite i loro profili Twitter. Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera, ha condiviso l’articolo dell’inviata Elena Tabano, che ricostruisce correttamente la storia. E ancora Carlo Verdelli, a capo di Repubblica, ha usato un tweet per riassumere in breve il caso di Noa e per scusarsi dell’errore precedente.

Tralasciando per un attimo la triste storia di Noa e tutte le riflessioni che possono scaturirne, è bene soffermarsi sull’accanimento dei social contro i media italiani, e sull’influenza che oggigiorno hanno le parole spese sulle piattaforme online.

Ci si potrebbe chiedere di chi è la colpa. Come mai una notizia falsa è finita su tutti i più importanti giornali nazionali (ma anche su quelli internazionali). Perché non c’è più la tanto agognata “informazione di qualità“. Il fatto è che la qualità, come in tutti i campi, costa. Tempo, denaro e fatica. E oggi molti pretendono di averla senza sborsare un centesimo, perché comunque Internet è gratuito e libero. I giornali italiani hanno sbagliato, è vero. Avrebbero dovuto andare più in profondità nella notizia, non fermarsi al controllo con uno “scroll” veloce sui siti esteri. Però per fare questo servono le risorse, che alle testate mancano sempre di più.

Alice Scaglioni

Ho frequentato il Master di Giornalismo IULM. Mi occupo principalmente di economia, tecnologia ed esteri. Scrivo per il Corriere della Sera, redazione Economia, PrimaOnline e D la Repubblica, nella sezione DYoung. Fan di Twitter, dove condivido tutto quello che scrivo (@alliscaglioni)

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