Dicembre 1989, il muro di Berlino è caduto da poco più di un mese, e in Romania scoppiano delle proteste nella città di Timișoara. Pochi giorni dopo l’eco del dissenso si fa sentire in tutto il Paese, a partire dalla capitale Bucarest, e il dittatore Nicolae Ceaușescu si trova costretto a fuggire, insieme alla moglie Elena. Catturato, il giorno di Natale di 30 anni fa viene sommariamente processato e giustiziato
Fucilato al muro, all’esterno di una scuola di Târgoviște, una cittadina vicina al confine con la Jugoslavia: così muore il dittatore. Con lui finiscono 42 anni di comunismo rumeno, di cui 25 con Ceaușescu al potere.
L’inizio della protesta
La scintilla che dette il via al fuoco delle proteste fu László Tőkés, un pastore calvinista di Timișoara che a luglio di quell’anno aveva criticato la politica discriminatoria del regime rumeno, nei confronti della minoranza ungherese a cui apparteneva. Le sue parole di protesta avevano trovato spazio in una TV ungherese. Il 16 dicembre, però, era arrivata la comunicazione da parte del governo rumeno: gli era stava revocata la carica di pastore e non aveva più diritto a vivere nel suo appartamento. I parrocchiani di Tőkés accorsero subito, per protestare ed evitare che il prete calvinista venisse cacciato, e a questi si aggiunsero altri compaesani. Quando le autorità cittadine confermarono lo sfratto la folla, che ormai era numerosa, incominciò a intonare canti anticomunisti.
La Securitate, la polizia segreta e milizia privata del dittatore, intervenne lanciando lacrimogeni. Il dissenso a quel puntò degenerò tramutandosi in scontri tra polizia e manifestanti, che portarono a una sanguinosa repressione.
I media nazionali, così come era successo per il crollo del muro, non divulgarono la notizia delle rivolte di Timișoara, che trovò comunque la via del passaparola e delle radio clandestine. Il capo politico fu costretto a tornare velocemente dalla sua visita di Stato in Iran, data la difficoltà della situazione.
Il panico del Conducător
Nel suo discorso del 21 dicembre 1989 Nicola Ceaușescu ha davanti a sé una folla più che scontenta: affamata e stremata dalle politiche di austerità che dominano il paese dal 1981.
Il dittatore fa finta di non accorgersene, si fa riprendere mentre visita negozi ben riforniti, mentre festeggia i risultati della produzione agricola. La verità è che sono anni che mancano carburante, gas e beni di prima necessità. La retorica del socialismo al potere però fa fatica a lasciare le parole e l’atteggiamento di Ceaușescu, che si affaccia a una folla che riempie la piazza del Palazzo del Parlamento. Le prime file lo applaudono e lo salutano calorosamente. Il capo rumeno incomincia a parlare delle contestazioni che hanno preso piede a Timișoara. Accusa i rivoltosi di fare capo a sezioni terroristiche, guidate da potenze straniere che vogliono creare dissenso. È a questo punto, a pochi minuti dall’inizio del discorso di Ceaucescu, che succede una cosa mai successa in 25 anni di dittatura.
Oltre le prime file osannanti, la folla rumoreggia, fischia, e partono parole di scherno indirizzate al dittatore. Una reazione fino a quel momento inimmaginabile, in un Paese dove ogni manifestazione di dissenso poteva tramutarsi in una condanna a morte.
Ceaușescu è colto di sorpresa, ripreso in diretta nazionale mentre si trova sul balcone che si affaccia su quella che oggi si chiama Piazza della Rivoluzione. Il Conducător è affiancato dalla moglie, il primo ministro Elena, ed è confuso. Alza le mani verso il popolo che fischia, cerca di calmare le voci.
Qualcuno dà l’ordine di non inquadrare più, allora le telecamere puntano verso il cielo, mentre l’audio continua a trasmettere alla nazione un dittatore nel panico che incomincia a promettere aumenti salariali. Poi le trasmissioni vengono interrotte.
Una rivoluzione in diretta
Questo è quello che accade poche ore prima che la manifestazione si espanda in tutta la Romania, spinta dalla disperazione e da quanto andato in onda. Il 22 dicembre, il giorno in cui l’esercito ha deciso di schierarsi con il popolo e di smettere di sparare sulla folla, i cittadini rumeni possono vedere dai loro televisori anche il momento in cui Nicolae e Elena Ceasescu fuggono dal Parlamento, dove si erano barricati, ormai circondati dai manifestanti.
«Avevo paura per me e per i miei colleghi, ma dovevamo andare avanti con il nostro lavoro, non aveva senso interrompere», sono queste le parole di Nicolae Malinescu, conduttore TV rumeno. La Securitate, l’unica forza di polizia rimasta fedele ai Ceaușescu, aveva infatti preso d’assalto la stazione TV. Dagli uffici del palazzo accanto i cecchini sparavano verso lo studio televisivo. «La TV rumena era diventata strumento della rivoluzione», continua Malinescu. Si andava ad aggiungere a Voice of America e Radio Free Europa, ma con le sue telecamere poteva raggiungere qualunque parte del Paese. «Penso che fosse la prima volta che si poteva vedere una rivoluzione in diretta».
Il processo: il genocidio che non c’è stato
Molto è stato registrato di questa rivoluzione, anche il suo atto finale, il processo ai coniugi.
Il Conducător e la moglie vengono fermati mentre sono in fuga, poi condotti in una scuola a Târgoviște. Si decide per un processo sommario. La sentenza deve essere immediata.
Ceaușescu al processo è tranquillo, si aspetta un salvataggio dell’ultimo minuto. Guarda in continuazione l’orologio, crede che gli uomini della Securitate conoscano la posizione, grazie a un trasmettitore che ha indosso. Ma il carro armato che lo ha scortato fino alla scuola ha schermato il segnale e i militari non lo captano in tempo.
In questo processo farsa, Ceaușescu non abbandona mai il suo atteggiamento sprezzante nei confronti di chi lo sta condannando, dichiara il suo diritto di essere giudicato davanti all’Assemblea Nazionale. Tra le tante accuse a cui deve rispondere c’è quella di genocidio, per l’uccisione di 60 mila persone a Timișoara; un’accusa mai provata – i morti causati dalla rivoluzione, in tutta la Romania, furono 1104. Viene però dichiarato colpevole e quindi giustiziato.
L’eredità di Ceaușescu
«Forse sarebbe stato meglio non ucciderli». Così si espresse Silviu Brucan, esponente del Fronte per la Salvezza Nazionale, il partito che prese il potere dopo Ceaușescu. Ma nell’intervista rilasciata ad un anno dalla rivoluzione continua con tono aspro: «Dovevamo dare loro l’opportunità di vedere la dimensione del disastro che hanno lasciato e cosa veramente la popolazione pensava di loro. Questa sarebbe stata una sentenza ancora peggiore».
Ceaușescu, con i suoi 25 anni di dittatura, ha lasciato molto in eredità: il ricordo dei 150 mila desaparecidos, morti nei campi di lavoro o per mano della Polizia segreta; migliaia di rumeni cresciuti orfani, in seguito alla legge contro l’aborto che costringeva all’abbandono; il terrore orwelliano nei confronti della Securitate, che spiava e perseguitava; l’immagine della bandiera rumena bucata al centro, simbolo della voglia di eliminare il simbolo della repubblica socialista dalla Romania.
Di quel culto della personalità, che portò Ceaușescu a farsi chiamare Genio dei Carpazi, invece, è rimasta solo qualche sparuta reliquia. Come gli imponenti progetti di costruzione che ridussero in ginocchio la già debole economia rumena. E un busto bianco a Scornicești, città Natale del dittatore, salvatosi dalla furia del dicembre 1989.