
L’Ungheria annuncia l’intenzione di ritirarsi dalla Corte penale internazionale (CPI), proprio nei giorni in cui accoglie il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, su cui pende un mandato d’arresto per presunti crimini di guerra nella Striscia di Gaza.
L’arrivo di Netanyahu
La visita di Netanyahu a Budapest — iniziata nella notte, con un’accoglienza in pista da parte del ministro della Difesa Kristóf Szalay-Bobrovniczky — è densa di simbolismo politico. Invitato formalmente da Orbán lo scorso novembre, appena un giorno dopo l’emissione del mandato della CPI, il premier israeliano trova oggi nell’Ungheria “il luogo più sicuro d’Europa”, come lo ha definito lo stesso Orbán su X, pubblicando la foto dell’incontro con Netanyahu accompagnato da onori militari e tappeto rosso.
BREAKING: Hungary to exit the International Criminal Court. Minister Gergely Gulyás announced that the government has decided to withdraw from the ICC.
The withdrawal process will begin on Thursday, in line with Hungary’s constitutional and international legal obligations. pic.twitter.com/zem99CdKsH
— Zoltan Kovacs (@zoltanspox) April 3, 2025
Un accoglienza che appare come una vera e propria presa di posizione politica contro la Corte dell’Aia. Il portavoce del governo ungherese Zoltán Kovács ha ufficializzato sui social l’intenzione dell’Ungheria di avviare la procedura per uscire dalla CPI, decisione ribadita dal ministro Gergely Gulyás in conferenza stampa: «La Corte penale internazionale è diventata un organo politico. L’incriminazione del primo ministro israeliano ne è il più triste esempio».
La rottura con L’Aia
Il governo ungherese, sostenuto dal ministro della Giustizia Bence Tuzson, ritiene che la CPI abbia ormai abbandonato la sua missione originaria di garantire giustizia per i crimini più gravi e agisca invece con logiche geopolitiche. Tuzson ha spiegato che la bozza di risoluzione per l’uscita è già pronta e sarà sottoposta a breve al Parlamento. L’intera procedura potrebbe concludersi nell’arco di un anno.
Dietro questa scelta ci sarebbe anche l’influenza degli Stati Uniti, in particolare dell’amministrazione Trump: Budapest avrebbe atteso un “semaforo verde” da Washington, arrivata dopo l’annuncio del 5 febbraio con cui Trump ha minacciato sanzioni contro la CPI in risposta al mandato contro Netanyahu.
Una crepa nell’Unione Europea
L’annuncio ha sollevato preoccupazioni a Bruxelles. La portavoce della Commissione europea, Anitta Hipper, ha dichiarato che se l’Ungheria dovesse davvero lasciare la CPI, «ci sarebbe profondo rammarico». L’Ue, ha ribadito, continuerà a sostenere la Corte «anche nell’ambito dell’accordo di cooperazione e assistenza» e ha ricordato che tutti gli Stati membri sono tenuti a eseguire i mandati d’arresto pendenti.
Ma Budapest si smarca: secondo Orbán, la Costituzione ungherese non obbliga il governo a dare seguito alle decisioni della Corte. Non solo. Il governo ungherese si è detto confortato da precedenti analoghi, citando il caso di Germania e Polonia, che avrebbero garantito l’immunità a Netanyahu nel caso di una sua visita, nonostante i vincoli dello Statuto di Roma.
Il contesto internazionale
La visita del premier israeliano arriva in un momento critico per il conflitto in Medio Oriente. Proprio in queste ore Hamas ha respinto l’ultima proposta israeliana per una tregua a Gaza e il rilascio di ostaggi. Secondo il ministero della Salute di Gaza, gestito da Hamas, dall’inizio della guerra sarebbero oltre 50.000 le vittime palestinesi, mentre gli scontri si intensificano e le trattative ristagnano.
La presenza di Netanyahu in un Paese membro dell’UE che rifiuta di collaborare con la CPI pone un problema politico di primo piano per Bruxelles. La Corte ha ribadito che «non spetta agli Stati giudicare la legittimità delle sue decisioni» e che eseguire i suoi mandati è «non solo un obbligo giuridico, ma una responsabilità verso gli altri Stati parte».
L’Ungheria, invece, sembra pronta a tagliare il cordone ombelicale con il sistema giudiziario internazionale in nome di una realpolitik che privilegia alleanze bilaterali e interessi strategici — a partire da Israele. Se davvero Budapest completerà il ritiro, sarà il primo Paese dell’UE a farlo, tracciando un precedente che rischia di incrinare la già fragile unità europea sul rispetto del diritto internazionale.