Più di trent’anni in prima linea sui fronti di guerra. In un incontro con gli allievi del Master in Giornalismo IULM, Lorenzo Cremonesi – inviato del Corriere della Sera – ha raccontato le sue esperienze in alcuni dei luoghi più instabili del pianeta: dall’Iraq al Libano, dal Pakistan all’Afghanistan. Passando, ovviamente, per il conflitto più recente, quello in Ucraina. Oltre che sulle pagine del Corriere, dal 12 maggio le testimonianze di Cremonesi si trovano anche sugli scaffali delle librerie con “Guerra infinita“, il suo ultimo libro. Un racconto attraverso quarant’anni di “conflitti rimossi“, dal Medio Oriente alla guerra in Ucraina.
Il suo ultimo libro parla di “guerra infinita”. Che cosa significa?
Il libro che ho scritto non si focalizza sul conflitto in Ucraina, ma su tutte le guerre attorno a noi. Siamo abituati a pensare che la guerra sia una cosa relativa al passato e che non faccia parte del nostro vivere quotidiano. Facendo l’inviato per il Corriere della Sera ho capito però che la guerra non ci ha mai abbandonato. Il vero problema è che noi non siamo culturalmente pronti al conflitto (fortunatamente), ma abbiamo bisogno di esserlo. La guerra non è una questione solo territoriale, ma è anche il nostro modo di vivere. Cambia l’ordine sociale, politico, culturale.
Come possiamo farci trovare pronti a reagire in questo senso?
Bisogna farsi carico della propria difesa. Ucraini, Afghani e tante altre popolazioni in difficoltà ci insegnano che ci sono dei valori come libertà, democrazia e il vivere civile che ci mettono davanti alla domanda “quello in cui credo vale la mia vita?”. Davanti alla guerra questo quesito si impone sempre. La libertà che noi abbiamo è effimera, temporanea e va difesa. Bisogna essere consapevoli che è così, per riuscire a difenderla.
Negli ultimi mesi ha seguito come inviato la guerra in Ucraina. Come si distingue sul campo la propaganda dalla realtà dei fatti?
Una volta arrivato a Kiev, la mia prima preoccupazione era procurarmi del cibo. Mentre giravo a piedi da solo per le vie di Kiev, sono entrato in un supermercato e ho incontrato un imprenditore ucraino. Ho iniziato a fargli alcune domande e ho scoperto che era un alto ufficiale della difesa contraerea ucraina da poco andato in pensione. Dal suo punto di vista, i Russi erano già stati battuti: il loro piano originale prevedeva di vincere la guerra nel giro di dieci giorni e non ci sono riusciti. L’esercito di Putin doveva entrare in città da Nord, con l’aiuto di cellule di attivisti filorussi, catturare Zelensky e poi conquistare tutto il Paese. Questo, però, non è successo.
E cosa le ha fatto credere che le cose fossero andate effettivamente così?
Innanzitutto, ho cercato di verificare ciò che mi era stato riferito dall’imprenditore ucraino per capire se si trattasse di semplice propaganda. Poi, qualche giorno più tardi, ho letto un interessante articolo sul Financial Times, che confermava la versione che mi era appena stata raccontata: il piano iniziale di Putin di conquistare l’Ucraina nel giro di pochi giorni era fallito. Questo è avvenuto perché l’Ucraina ha un buon sistema anti-missile e anti-aereo ed è perfettamente consapevole della discrepanza militare tra il proprio esercito e quello russo.
Parlando di lavoro sul campo, come e quando si contatta uno stringer?
Una volta saputo quando e come si parte, ci si organizza. Lo stringer è importante perché ha in mano la vita del giornalista. Avere un bravo collaboratore locale è fondamentale perchè da quello dipende sia l’esito giornalistico che la sopravvivenza personale. Ogni incontro dipende tanto anche dalla fortuna, ma nei territori di guerra bisogna essere invisibili, muoversi da soli. Già in due persone è un rischio, per questo motivo bisogna essere allineati con il proprio accompagnatore.
Com’è fare l’inviato di guerra ai tempi di una società iper-connessa?
La principale differenza con il passato è che tutti gli inviati ora possono essere riconosciuti attraverso ricerche internet dai poliziotti e da chiunque incontrino. Essere riconosciuto come giornalista può tutelarti, ma anche compromettere il lavoro sul campo perché non tutte le persone che incontriamo possono essere predisposte a parlare con la stampa. Dove opera l’estremismo islamico, oggi il giornalista bianco europeo è un nemico. È una condizione culturale che è cresciuta lentamente negli ultimi decenni: fino agli anni Ottanta e anche Novanta non era così.
Per quanto riguarda il metodo giornalistico invece?
Fare l’inviato significa essere sempre soli, anche se si è sempre in comunicazione con la redazione in Italia e con gli altri colleghi inviati di altre testate e altri paesi. Ma bisogna essere in grado di trovare le persone giuste sul luogo e imparare a muoversi in autonomia. Il punto non è esserci, è esserci e scrivere. Bisogna inviare un pezzo alla redazione ogni giorno, quindi l’organizzazione è importantissima. Per questo è fondamentale avere un buon collaboratore, gestire la logistica e conoscere subito le dinamiche del posto.
La prossima settimana partirà di nuovo per l’Ucraina. Com’è cambiata la situazione da quando è tornato in Italia?
Sono cambiate molte cose durante la mia assenza. Per questo, una volta tornato in Ucraina, penserò prima di tutto non a scrivere ma a informarmi su come è evoluta la situazione. Ma lo potrò capire solo una volta arrivato sul campo, perché è lì che ci sono le fonti dirette.