
Trent’anni fa una delegazione guidata dall’europarlamentare del Gruppo Verde denunciava l’inazione dei governi europei di fronte all’aggressione serba della Bosnia. Un appello che ancora oggi risulta attuale
26 giugno 1995, Cannes. Una dozzina di europarlamentari raggiunge Palais des Festivals et des Congrès, dove sta per cominciare un vertice del Consiglio europeo. Ad accoglierli c’è Jacques Chirac in persona, che presiede l’assemblea come guida dei lavori del Consiglio, accompagnato dal ministro degli Esteri francese Hervé de la Charette. I nuovi arrivati vengono invitati a entrare nel centro congressi. In testa al gruppo c’è un uomo sulla cinquantina. Capelli lunghi, grossi occhiali tondi.
Il suo nome è Alex Langer, tirolese di nascita e co-presidente del Gruppo Verde al Parlamento europeo. È lui a prendere la parola con Chirac, presentando l’appello “L’Europa muore o rinasce a Sarajevo”, un documento firmato da diversi parlamentari europei (in maggioranza verdi e radicali) in cui si chiede all’Ue di intervenire nel conflitto jugoslavo a protezione della popolazione bosniaca.
Il suo è un discorso con una forte carica polemica: negli oltre tre anni dall’inizio dell’aggressione serbo-bosniaca alla Bosnia-Erzegovina – una campagna militare guidata dal presidente Radovan Karadžić per assicurarsi il controllo di territori chiave e realizzare una “pulizia etnica” delle popolazioni non serbe – l’Europa si è colpevolmente girata dall’altra parte. «Basta con la neutralità tra aggrediti e aggressori, apriamo le porte dell’Unione europea alla Bosnia!», scrive Langer in un articolo pubblicato giorni dopo, in cui condensa il contenuto del messaggio rivolto a Chirac.
Nell’appello chiede l’intervento della «polizia internazionale» per ripetere «quel “mai più” che risuona in tutta Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale». Ma le sue sono parole al vento: le richieste di fermare la violenza dilagante nei territori dell’ex-Jugoslavia non vengono ascoltate dalle istituzioni europee. Una sordità che, di fatto, dà seguito alla guerra e ai suoi orrori. Qualche settimana più tardi, ottomila persone verranno uccise a Srebrenica, nell’est della Bosnia: un episodio che la Corte internazionale di Giustizia ha poi valutato come genocidio.
Sono passati trent’anni da quell’appello di pace a Cannes. Eppure, l’Europa sembra oggi vivere la stessa inerzia di allora, gravata da presunti pacifismi e indebolita da emergenti sovranismi. I colpevoli ritardi sull’unità politica a livello comunitario e le resistenze per la realizzazione di una difesa comune (che ancora non c’è) sono fattori che impediscono a Bruxelles di presentarsi sullo scacchiere internazionale come una pedina di rilievo.
In un contesto geopolitico caratterizzato da diverse tensioni – dalla condotta neo-protezionistica del presidente americano Donald Trump, alla guerra d’aggressione russa in Ucraina – l’Europa rischia ancora di interpretare il ruolo di una comparsa, e non di un protagonista, nella scena globale.
Mutatis mutandis, chiaramente: il conflitto jugoslavo scaturiva da una questione etnica, mentre quello ordinato da Vladimir Putin non presenta questa componente; inoltre, a differenza di quella degli anni Novanta che si configurava come un una guerra civile tra eserciti uniti fino a pochi anni prima, quella in corso in Ucraina è una guerra ottocentesca condotta all’insegna della delirante ambizione di una “grande Russia”. Eppure, dei punti di contatto tra i due conflitti ci sono.
In entrambi i casi, infatti, l’Europa si è dimostrata un attore passivo, incapace di realizzare una comune politica di sicurezza e intervenire per la pace. E oggi il letargo di Bruxelles non è più giustificabile. A ricordarlo, tra gli altri, è stato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in un recente simposio a Coimbra dal significativo titolo “Un appello all’azione”: «È urgente, direi prioritario, che l’Europa agisca, perché stare fermi non è più un’opzione», ha detto.
Che stare fermi non sia un’opzione percorribile l’aveva già capito Langer, insofferente nei confronti di una «politica di sedicente neutralità dell’Unione europea». Nel suo discorso a Chirac, l’europarlamentare del Gruppo Verde avanzò concrete proposte d’azione: l’applicazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, in particolare quelle che garantivano il libero accesso degli aiuti alle vittime; l’interruzione dell’assedio a Sarajevo e ad altre città accerchiate, e l’effettiva realizzazione di zone di sicurezza; l’aumento della presenza dei caschi blu in Bosnia; il sostegno attivo alla causa degli aggrediti e delle vittime; e il riconoscimento internazionale della Repubblica di Bosnia-Erzegovina e la sua adesione piena e immediata all’Unione europea.
Secondo quanto riportato da Langer, l’allora presidente del Consiglio europeo gli rispose che «sì, liberare Sarajevo dall’assedio era una priorità, ma che non esistevano buoni e cattivi, e che non bisognava fare la guerra». Langer si prese così del guerrafondaio, peraltro da un presidente neo-gollista che pochi giorni prima aveva annunciato la ripresa degli esperimenti nucleari nell’Oceano Pacifico. Eppure, la sua biografia dice tutt’altro.
Langer è infatti passato alla storia come un pacifista, o meglio un «facitore di paci», come amava definirsi. Ma non è la pace propagandata da certi politici, anche nel nostro Paese. «Per lui la pace era uno strumento concreto per risolvere i conflitti, non era uno slogan o un’ideologia da gridare o sventolare», spiega Clara Bassan, dottoressa in Storia Contemporanea e componente del Consiglio d’Amministrazione della Fondazione Alexander Langer Stiftung.
«Langer portava avanti questa visione tanto a livello istituzionale quanto a livello civile. Nella sua carriera c’è infatti stato un continuo interscambio tra le attività in Parlamento e gli eventi sociali: nelle sue missioni politiche incontrava sempre le persone – i gruppi della società civile oltre che importanti figure politiche –, partecipava alle iniziative dei cittadini come le carovane di pace in Jugoslavia, favoriva il confronto tra punti di vista discordanti. Costruiva ponti».
Nell’aprile 1993, nel pieno del conflitto jugoslavo, Langer affidò alle colonne della rivista Terra Nuova la sua riflessione intorno al concetto di pace. L’europarlamentare si diceva a favore di «un pacifismo […] meno gridato, ma assai più solido e più concreto. Il che vuol dire anche più complicato, perché la vita è complicata, e la pace non si ottiene per vie semplicistiche». Criticava invece tanto il pacifismo tifoso – quello partigiano, che era montato in seguito allo scoppio della Guerra del Golfo – quanto quello dogmatico – che ripudiava aprioristicamente ogni intervento militare, nonostante la realtà delle epurazioni etniche, degli stupri di massa e delle deportazioni in corso in Bosnia.
La ricerca della pace – di una pace concreta – fu per Langer un’autentica vocazione che lo accompagnò per tutta la vita, sin dalla prima giovinezza in Sudtirolo, che nel Secondo dopoguerra fu terra di conflitti etnolinguistici tra italiani, tedeschi e ladini. Da giovane si impegnò concretamente a incoraggiare la convivenza tra le parti coinvolte e, a metà degli anni Sessanta, diede origine a un “Gruppo Misto”.
«Il gruppo si raccoglie, i più sono di provenienza cristiana, qualche non credente, ragazze e ragazzi, di madrelingua tedesca, italiana, ladina», scrisse Langer nell’Autobiografia Minima Personalia, pubblicata sulla rivista Belfagor nel marzo del 1986. «Cominciamo a incontrarci regolarmente, a studiare insieme la storia della nostra terra (scoprendo le reciproche omissioni e reticenze), a farci un’idea di come potrebbero andare le cose. Ci sentiamo impegnati contro gli attentati […], per una giusta riforma dell’autonomia, per un futuro di convivenza e rispetto, nella conoscenza reciproca di lingue e culture».
Era questa – in nuce – la ricetta “pacifista” di Langer: arrivare alla risoluzione del conflitto attraverso la conoscenza dell’altro. Un processo complesso fatto di un continuo impegno per la solidarietà e la giustizia, finalizzato a un incontro tra ragioni diverse. Questa visione trovò applicazione anche anni dopo, nel pieno del conflitto jugoslavo. Nel settembre 1992, infatti, Langer promosse il Verona Forum, un’iniziativa per la pace e per la riconciliazione nell’ex-Jugoslavia.
L’evento si proponeva di far incontrare attivisti provenienti dai Paesi coinvolti nel conflitto, incoraggiando il dialogo interetnico verso una risoluzione non-violenta delle ostilità. «Così come alla mensa di Bruxelles donne serbe, croate e slovene mangiavano insieme e non avevano difficoltà di intendersi, pur essendo già scoppiata la guerra da un anno, si sarebbe dovuto manifestare – si pensava – una possibile intesa tra cittadini, capace di contagiare […] persino i partiti, i mezzi d’informazione e le cancellerie», scrisse in un articolo due anni e mezzo più tardi, parlando del forum nella città veneta.
Secondo l’europarlamentare del Gruppo Verde, Bruxelles doveva essere il fulcro di questa costruzione di pace. «Un protagonista fermo ma pacifico, con una sua proposta e una sua iniziativa», aveva rimarcato mesi prima, nel gennaio 1991, in un intervento in aula a Strasburgo, in cui aveva criticato la disunità d’intenti dimostrata dai governi europei in merito alla Guerra del Golfo. Bassan spiega che «Langer aveva in mente un’Europa federale, dotata di una comune politica di pace e in grado di garantire la difesa dei diritti umani e delle minoranze etniche a livello sovranazionale».
Di fatto, «con la caduta del muro di Berlino era necessario trovare una soluzione per tutti quei paesi ex-socialisti che nutrivano un forte bisogno di Europa. Langer intuì che per andare incontro alle loro esigenze non ci si poteva limitare a un’integrazione economica, ma occorreva promuovere innanzitutto un’unità politica attraverso il dialogo tra i rappresentanti».
Oggi – con l’Ucraina invasa dalla Russia di Vladimir Putin e i sempre più forti venti sovranisti – quella visione risuona come profetica. Ma allora, a quale pace si può pensare di aspirare se non a quella che passa per il riconoscimento di una comune identità europea?