Negli anni ’90 la Bosnia Erzegovina è stata il teatro di una delle più sanguinose guerre etniche conosciute dall’Europa. Forse più di tutti gli stati jugoslavi ha dovuto affrontare le due anime della sua popolazione: quella serbo-croata e quella turca-ottomana. Negli ultimi anni però le migrazioni dal Medioriente hanno costretto la Bosnia a confrontarsi di nuovo con le eredità multiculturali del suo passato, al crocevia tra due mondi.
I Balcani sono diventati infatti la via per un sogno europeo che non passa solo dal Mediterraneo. Le speranza di migliaia di migranti – provenienti soprattutto da Pakistan, Afghanistan e Bangladesh – si arrestano però negli inverni rigidi del Campo profughi di Lipa, nel Cantone musulmano di Una Sana. Il nervo scoperto di un Paese che sta ancora cercando di fare i conti con se stesso.
La rotta
I controversi accordi del 2016 tra la Commissione di Bruxelles e la Turchia avrebbero dovuto chiudere la cosiddetta rotta balcanica. Ma si sono limitati a deviare il percorso dal mare della Grecia alle strade di Bulgaria e Macedonia. L’inizio del cammino verso Croazia, Ungheria, Austria e Italia è lungo, colmo di sofferenze e sacrifici attraversa Serbia e Bosnia, ma viene spesso interrotto proprio al suo ultimo atto dalle Polizie di confine.
Aveva fatto scalpore nel 2017 la vicenda di Madina Hussein, la bambina afghana di 6 anni, morta investita sui binari che portavano alla stazione ferroviaria di Sid, prima del limite tra Serbia e Croazia. Le pattuglie notturne avevano respinto lei e la sua famiglia a Tovarnik, poco dopo il confine, costringendole a ripercorrere a ritroso l’ultimo miglio con cui avevano, poco prima, guadagnato l’Europa. Nell’ultimo anno sono stati quasi 800 i minori respinti illegalmente alla frontiera croata.
Alla soglia dell’Europa
Sovraffollamento, fame, freddo, scarsa igiene e tutele dei diritti sono un problema anche di coloro che riescono a raggiungere situazioni di accoglienza istituzionalizzate. La convivenza di molte storie e sofferenze in luoghi ristretti è fonte di tensioni, acuite anche dalla diffusione del Covid-19.
Delle condizioni critiche delle migrazioni sulla rotta balcanica si era parlato anche dopo le manifestazioni degli sfollati del campo di Moria, sull’isola greca di Lesbo. A settembre 2020 la struttura, già in ginocchio a causa della pandemia, era stata distrutta in un incendio, probabilmente appiccato da alcuni degli ospiti per protesta. Non è stato questo il solo caso simile nelle terre dall’altra parte del Mar Adriatico.
La storia di una donna afghana che ha attraversato il confine tra Turchia e Bulgaria per iniziare il suo viaggio nei Balcani, da Balkan Insight
Il campo
Proprio il campo di Lipa è stato aperto come centro di accoglienza provvisorio lo scorso aprile, nell’unico terreno messo a disposizione dalla municipalità per l’emergenza coronavirus. Tuttavia, le condizioni igienico-sanitarie e la mancanza di spazio per il numero di persone accolte, hanno portato alla chiusura della struttura. Senza aver previsto alcuna alternativa di smistamento dei profughi. A meno di venti chilometri è presente il campo di Bira, temporaneamente chiuso da settembre, ma il comune non sembra disposto a riaprirlo e gli oltre mille posti disponibili rimarranno inutilizzati.
Oltre alla gravità della questione gestionale, il 23 dicembre 2020, giorno in cui l’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) ha ufficialmente abbandonato la struttura di Lipa, è scoppiato un incendio che ha distrutto il campo, lasciando circa 1.500 sfollati. «Negli ultimi due anni abbiamo fornito oltre 90 milioni di euro per centri, attrezzature, assistenza medica e sociale» e che quindi ora «abbiamo bisogno che si muovano, non che giochino con la vita delle persone», ha ribadito Joseph Borrell, l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza.
Dopo l’incendio, circa 700 persone sono state sistemate in alcune tende riscaldate, a pochi metri dal vecchio campo, mentre più di 350 persone hanno dovuto trovare delle soluzioni alternative dentro Lipa oppure in baracche improvvisate nel bosco adiacente. I numeri non tengono conto delle oltre 2.500 persone che vivono al di fuori dei sistemi di accoglienza, in palazzi abbandonati o in baraccopoli nella foresta.
Una situazione insostenibile, sia per la mancanza di assistenza sia per le temperature di questo gelido inverno, sempre più spesso sotto zero. I profughi hanno cercato di procurarsi il necessario per vivere, ma è una lotta continua, raccontano. Senza che nessuno intervenga. «Non siamo dei terroristi, non siamo animali, eppure siamo trattati come se lo fossimo», confessa Mohammed Yasser, originario del Pakistan. In molti sono partiti verso l’Europa grazie ai risparmi e ai sacrifici delle famiglie e, per questo motivo, non possono permettersi di tornare indietro. Di certo, però, non si sarebbero mai aspettati un tale trattamento, specialmente da un continente diventato simbolo di civiltà e rispetto dei diritti delle persone.
La violenza della polizia croata
Le denunce dei migranti lungo la tratta si estendono anche alla polizia locale. «Croatia police», ripetono i profughi, mentre mostrano le cicatrici sulla pelle. La frontiera per entrare nell’Unione Europea, spiegano, è sorvegliata dalla polizia croata armata di pistole, manganelli, visori notturni, termoscanner e droni.
Ogni mezzo è necessario per individuare e arrestare la corsa delle centinaia di persone che ogni giorno tentano di varcare il confine. La brutalità della polizia è stata documentata anche in molti video e testimonianze. Nonostante l’evidenza sulle condizioni di vita di queste persone e nonostante i numerosi appelli da parte di ong, volontari e funzionari delle Nazioni Unite, Bruxelles sembra non volersi prendere le proprie responsabilità.
L’atteggiamento ambiguo dell’Europa
Consapevole, ma apparentemente impotente, l’Unione Europea ha avuto un atteggiamento ambiguo verso i profughi di Lipa. La responsabile, nominata da qualche mese, per la gestione della crisi, Janez Lenarcic, sembra voler attribuire il disastro umanitario di Lipa all’incapacità della Bosnia Erzegovina di dotarsi di «strutture di accoglienza in grado di superare l’inverno, utilizzando anche quelle già esistenti».
Da una parte poi, Bruxelles avrebbe stanziato dal 2013 ad oggi 89 milioni di euro, di cui 75 attraverso l’Organizzazione internazionale per le migrazioni per migliorare tali strutture, che al momento dovrebbero accogliere tra i 6 e gli 8.0000 migranti presenti nel paese. Solo nel 2020, il fondo sarebbe stato 3,5 milioni. Dall’altra però né Frontex, l’Agenzia Europea a guardia delle frontiere, né altri Organi dell’Unione hanno agito concretamente per arginare gli abusi e le irregolarità nemmeno di un paese membro, come la Croazia.
Siamo al Campo di Lipa e questo è ciò che abbiamo davanti: freddo, neve, centinaia di persone accampate e in attesa di risposte. Una situazione disumana, davanti alla quale noi europei non possiamo stare a guardare. Serve il prima possibile una politica più umana. #RottaBalcanica pic.twitter.com/hK6Cy96TJF
— Brando Benifei (@brandobenifei) January 31, 2021
Ha sortito pochi effetti il report impressionato di alcuni eurodeputati italiani, Brando Benifei, Pierfrancesco Majorino, Alessandra Moretti e Pietro Bartolo, che a gennaio hanno vinto le resistenze della Polizia bosniaca e si sono avventurati nei boschi di Biach’.
In Bosnia spesso sono state associazioni non governative, come il Consiglio danese per i rifugiati, o la Croce Rossa che si sono occupati di fornire ai migranti abiti invernali, cibo e assistenza medica. Il volontario responsabile Nicola Bay ha definito Lipa «un posto invivibile», «che non rispetta nemmeno gli standard umanitari minimi».
Dopo l’incendio a Lipa, si era pensato di trasferire gli sfollati, di cui oltre 1700 donne e bambini, vicino a Sarajevo, poi a Bira. Le operazioni si sono però concluse con un nulla di fatto. Molti dei profughi al momento si stanno spostando verso l’est della Bosnia, per raggiungere la Romania. L’ingresso dalla Croazia è infatti giudicato quasi impossibile.
Intanto per i profughi di Lipa e degli altri campi della Bosnia Erzegovina mancano soluzioni a lungo termine.
L’accoglienza in Bosnia
Solo nell’anno del Coronavirus l’Organizzazione internazionale per le migrazioni stima che siano stati 39.648 i migranti entrati in Serbia nel 2020.16.650 quelli in Bosnia. Come molti nell’est Europa, questi sono due stati etnicamente disomogenei. Dal censimento del 2013 per il 44% è costituita da bosgnacchi, cittadini di religione musulmana. Ma per la parte – più della metà – di popolazione di origine serbo-croata, la diffidenza verso i profughi nel Nord Africa e del Medio Oriente è diffusa. Anche nelle regioni a maggioranza mussulmana, come quella della città bosniaca di Bihac’, dove si trovano i campi profughi di Bira e Lipa.
Non meraviglia quindi come la maggioranza della popolazione locale consideri i profughi come un problema dell’Unione Europea. Il Premiere nazionalista Milorad Dodik sembra avvallare questo atteggiamento. Può, d’altra parte, sfruttare facilmente le debolezze della Costituzione bosniaca per svincolarsi dalla gestione.
La responsabilità di assicurarsi il rispetto dei diritti umani di base nel paese apparterrebbe infatti sia al governo centrale che ai cantoni locali. Le amministrazioni regionali della Bosnia, controllano il presidio dei territori e le forze di polizia. Molto spesso queste autorità, come quelle speculari della Croazia, non si riconoscono nei valori di accoglienza europei e non sono solidali alle vicende dei profughi entrati nel Paese. Lo racconta uno degli uomini di Dodik al New York Times, Salmo Cikotic, ministro della sicurezza bosniaco.
Il governo centrale non ha gli strumenti costituzionali, o non è interessato, «cercare di risolvere la resistenza delle autorità del cantone». I migranti pertanto subiscono il retaggio di un paese politicamente disorganizzato e ostile alle popolazioni esterne. Anche quando esse abbiano contribuito a comporre parte della sua storia.