Il Coronavirus visto dagli occhi degli italiani in Cina

«L’ultima volta che sono andato al supermercato è stato una settimana fa. Cerco di star lontano dalle persone, di star attento a toccare i bottoni dell’ascensore, mi copro». Inizia così l’intervista al telefono con Alessandro C., 30 anni, da 3 in Cina, a Shenzhen, nella regione dello Guangdong, terza per numero di casi di coronavirus, la piaga che sta colpendo il Paese e che ad oggi conta 565 morti e 28.149 casi (bilancio aggiornato al 6/02/2020).

Lavora in una nota azienda di elettronica cinese come direttore creativo per realtà che vogliono lanciare prodotti sul mercato internazionale, dopo aver girato diversi stati dell’Asia: Thailandia, Vietnam, Giappone, Kirghizistan, Tagikistan e la Cina, dove è rimasto. Probabilmente non per sua scelta: «Ero stato poco tempo fa in Italia e non avevo in programma di tornare. Quando le cose hanno iniziato a degenerare i voli diretti sono stati bloccati».

Shenzhen è una metropoli che conta 11 milioni di abitanti, più di un sesto dell’Italia. Si trova a 1000 km circa da Wuhan, dove è scoppiato il focolaio. «La gente è andata in panico, si è comprata di tutto e ha svuotato i mercati. Fino a pochi giorni fa era difficile persino trovare frutta, verdura fresche. Esco il minimo possibile, solo per buttare la spazzatura. E quando lo faccio uso la mascherina, obbligatoria».

Un uomo alla stazione ferroviaria cinese completamente coperto per proteggersi dal coronavirus

Per mangiare Alessandro si serve di app molto usate in Cina (anche prima dello scoppio del virus) dove è consuetudine fare la spesa o ordinare cibo pronto dagli smartphone. «A livello economico è conveniente, la spesa della spedizione è praticamente nulla».

Applicazione cinese usata per ordinare cibo dagli smartphone. I cartelli parlano della massima cura con cui vengono trattati gli alimenti
Il consolato italiano: comunicazioni in ritardo

Gli italiani in Cina comunicano con l’autorità consolare italiana tramite wechat. «Ci sono diversi gruppi di conversazione di italiani con diverse centinaia di connazionali» spiega Alessandro. Spesso l’ambasciata italiana comunica su Facebook, social network che è bloccato in Cina, dove vige un regime a partito unico.  Allo scoppio dell’epidemia «il consolato aveva iniziato a rimbalzare (in ritardo) comunicazioni che davano altri consolati» ammette Alessandro.

Quando il panico si è diffuso tra la gente, «nei gruppi le domande e le richieste di informazioni si sono fatte sempre più frequenti» dice Alessandro. «Gli italiani sono in ansia, facile perdere il controllo in questi casi. Molti volevano tornare a casa, ma per farlo bisogna prendere mezzi che sono sconsigliati, come metro, treno, bus, aereo».  E mentre l’Australia e gli Stati Uniti stavano pianificando di portare fuori da Wuhan i propri connazionali, l’Italia ha aspettato qualche giorno. «Poi finalmente hanno cambiato i piani: hanno organizzato l’aereo militare» per portare a casa i 56 italiani da Wuhan, atterrati lunedì scorso.

«Noi chiedevamo cosa dovessimo fare per tutelarci ed ottenere tutela». Ma le risposte tardavano ad arrivare. Ed erano generiche: «Leggete le notizie su internet» o «lavatevi le mani, non toccate in giro» racconta Alessandro.

E le mail? In ritardo, anche quelle. Utili? Non sempre. «Il consolato ci rispondeva che è a corto di personale o che doveva far fronte alle tante richieste di italiani in Italia» racconta invece, Alberto T., classe 1994. «Un giorno – continua Alberto – ricevo una mail dal consolato. Fiducioso la apro: parlava del referendum sulla riduzione dei parlamentari». Nessuna allusione al coronavirus.

Screenshot della mail del consolato italiano e la risposta di Alberto

Alberto, a differenza di Alessandro, è riuscito a tornare in Italia, la scorsa settimana. «Sono partito dal Vietnam, da Hanoi. Ho fatto scalo a Dubai e sono atterrato a Malpensa. All’aeroporto di Milano non mi hanno fatto nessun controllo né mi hanno chiesto da dove venissi, nonostante fosse chiaro dal passaporto».

«Mi sono automesso in quarantena» dice con tono ironico, «rimango chiuso a casa e cerco di star il più lontano possibile dai miei genitori che sono anziani». Lui, che dovrebbe tornare in Cina a lavorare il 10 febbraio ha ripreso a lavorare da remoto domenica notte, rispettando il fuso orario cinese. Intanto il governo ha imposto la chiusura di aziende, scuole e università. «Se la situazione non si stabilizza prendo altri giorni di ferie e aspetto a ripartire».

Coronavirus e Sars: virus simili scoppiati nella stessa regione

«In Cina si era a conoscenza dell’esistenza del virus da alcune settimane – continua – ma non pensavo che la diffusione fosse così veloce» afferma Alberto. Il medico cinese Li Wenliang, che aveva dato l’allarme per primo, ma non era stato ascoltato, è morto oggi per contagio.

La voce del virus girava in Cina già a dicembre. L’epicentro era stato individuato nel mercato del pesce di Wuhan, dove la promiscuità tra uomini e animali, anche selvatici (vivi e morti) è frequente. Dal primo gennaio il mercato viene chiuso. Ancora oggi le origini del virus rimangono ignote.

Un uomo si protegge il volto con una bottiglia di plastica (Foto di AFP)

Alberto lavora nella stessa azienda di Alessandro, a Shenzhen nel Guangdong, la regione in cui scoppiò tra il 2002 e il 2003 la SARS, la sindrome respiratoria acuta grave che provocò la morte di 349 persone (dati OMS). «Impressionate e allo stesso tempo strano come nello stesso Paese in cui c’è stata la SARS, scoppi questo virus. Qui si mangiano pipistrelli e serpenti. Il problema è come avviene il macello, la conservazione, l’allevamento» afferma Alberto. «Nei mercati è ancora peggio, in quelli più poveri non c’è pulizia e non disinfettano. Anche in molti ristoranti regna la sporcizia».

Cina: il Paese dai mille contrasti

Il virus sta danneggiando l’economia di un  Paese che negli ultimi anni ha avuto una crescita esponenziale. Basti pensare alla stessa Shenzhen, nata come villaggio di pescatori ed ora metropoli in forte espansione. In Cina, allo stesso tempo, come ricorda Alessandro, non ci sono molte regole: «Si può aprire un ristorante senza un bagno, per esempio». Terra di paradossi, di luci e ombre.

Un Paese che «viaggia tra il primo e il secondo mondo, talvolta sprofonda nel terzo» dice Alberto. È all’avanguardia nella logistica, nelle aziende, nella velocità di produzione, nel commercio. Ma è fortemente arretrato nell’igiene. «Credo sia un fattore culturale: non c’è educazione sanitaria» afferma Alberto. E lo si vede dalle piccole cose, come mettere la mano davanti alla bocca, a quelle più gravi, come macellare per strada animali o depositare pezzi di carne in un frigo sporco.

Operatore ecologico cinese che indossa la mascherina

«Ci troviamo in Cina, uno Stato-continente. Qui regna la fretta: fretta di progresso, fretta di far grandi numeri, fretta di produrre e guadagnare» afferma Alberto. La Cina, ricordano i due ragazzi italiani, è anche lo Stato che ha costruito in una settimana due ospedali, messo in quarantena un’intera metropoli. La gente per ottenere un qualsiasi trattamento sanitario deve pagare, invece «per questa emergenza il governo ha predisposto le cure gratuite a chi ne avesse bisogno». Non solo, ha impedito il rincaro delle mascherine, evitando l’impennata dei prezzi e il rimborso totale ai biglietti aerei in caso di cancellazione. «Questo Paese ha messo davanti il popolo. Funziona così».

Ma, dice Alessandro, «non voglio morire qua».

Carolina Zanoni

NATA NELLA GIORNATA MONDIALE DELLA LIBERTÀ DI STAMPA, NON AVREI POTUTO SCEGLIERE UNA STRADA DIVERSA. LAUREATA IN LETTERE ALL'UNIVERSITÀ DI VERONA, OGGI SONO GIORNALISTA PRATICANTE PER MASTERX IULM-MEDIASET. SONO APPASSIONATA DI POLITICA, ANCHE EUROPEA. HO COLLABORATO CON “TOTAL EU”, “ITALPRESS” E “DIRE” ALL'INTERNO DELLE ISTITUZIONI EUROPEE A BRUXELLES E A STRASBURGO. Mi PIACE INTERVISTARE E STAR DIETRO LE QUINTE A RACCONTARE LE DINAMICHE DEL PIÙ INTRIGANTE SPETTACOLO (O CIRCO) DEL MONDO: LA POLITICA.

No Comments Yet

Leave a Reply