Il dolore di Lena: «I russi hanno sterminato la mia famiglia»

Due lunghe strade dritte, le uniche asfaltate nel piccolo villaggio di Mothyzyn: distretto di Bucha. Ci sono un fiume, un laghetto e chilometri di campagna arida. Poco più di mille abitanti che vivevano di agricoltura e allevamento, prima del 24 febbraio. Appena tre giorni dopo l’inizio dell’invasione, la sindaca Olha Sukhenko con un post su Facebook ha invitato i suoi concittadini a stare a casa. Quelle resteranno per sempre le ultime parole affidate ai social.

«Mia madre, mio padre Ihor e mio fratello Oleksandr sono stati torturati, uccisi e gettati in una fossa comune in mezzo alla campagna dall’esercito russo. La loro colpa è aver aiutato gli altri». Lena, unica sopravvissuta della famiglia, fatica a parlare. Risponde su Telegram, quando riesce prova a raccontare. Ma il dolore è troppo.

Lena, lei ha scelto di parlare perché vuole che tutti sappiano.
«Non riesco più ad ascoltare chi dice che il massacro di Bucha e dei villaggi vicini sia solo una messa in scena. Ho perso tutto, non ho più nulla. Le persone a cui volevo bene adesso sono sotto terra».

Le va di raccontarci com’è iniziato tutto?
«Appena è cominciata l’invasione, io e mio fratello Oleksandr abbiamo raggiunto casa dei nostri genitori a Mothyzyn, 50 chilometri da Kiev. Mia mamma Olha era la sindaca, mio padre Ihor presidente di una scuola calcio locale. Oleksandr era un calciatore, giocava nel Kudrivka, aveva solo 25 anni. Nella settimana in cui siamo stati nel villaggio i carri armati russi bloccavano ogni via di fuga, sparavano ai civili che tentavano di scappare. Poi sono arrivati i missili. E cercavano il capo della città».

Olha, Ihor e Oleksandr Sukhenko

Purtroppo, l’hanno trovata.
«Mia madre Olha non ne voleva sapere di andare via. Ha iniziato fin da subito ad aiutare i suoi concittadini. Organizzava e smistava gli aiuti, programmava la consegna di cibo e medicine. Oleksandr si occupava dei più anziani e portava loro tutto ciò di cui avevano bisogno. Era rischioso restare, non c’era elettricità e linea telefonica. Insieme a mio marito siamo scappati per salvare la vita a nostro figlio».

La sua famiglia ha scelto di restare?
«Li ho implorati di andare via quando abbiamo iniziato a vedere i primi morti in strada e le auto civili crivellate. Loro non ne volevano sapere di scappare. Il 23 marzo l’esercito russo è entrato in casa nostra, hanno preso l’auto di Oleksandr. Mio fratello ha parlato con loro, pensava di poter avere un dialogo e che fossero al sicuro perché avevano già controllato tutto. Poi sono tornati e…».

Oleksandr Sukhenko, in campo con la maglia del Kudrivka

Lena, si prenda il suo tempo.
«Per me, non è facile parlare. Sono arrabbiata, nessuno ci ha aiutato. Quello che è successo è anche colpa di tutti quelli che guardano e non fanno nulla. Di chi crede sia tutta una farsa. I russi sono tornati perché volevano prendere mia madre. Papà Ihor non l’ha lasciata sola. Oleksandr ha provato a mediare, i militari avevano promesso di lasciare in vita i nostri genitori. In quel momento è arrivata la telefonata di mio fratello».

Cosa le ha detto?
«Che avrebbe fatto di tutto per riportare a casa mamma e papà. È stata la nostra ultima conversazione. Gli ho chiesto di trovare un altro posto dove stare, lì era in pericolo. Mi ha detto che avrebbe aspettato fino a quando i nostri genitori non fossero tornati».

Non è più riuscita a parlare con Oleksandr?
«Ho ricevuto il suo ultimo messaggio alle 15.36 del 23 marzo. Diceva: “Lena, stiamo bene. Il telefono sarà spento”. Non ha mai più ricevuto i miei messaggi».

Gli ultimi messaggi inviati da Oleksandr a sua sorella Lena

Come ha saputo che fossero stati uccisi?
«Un amico di famiglia mi ha scritto a inizio aprile. È stato il messaggio più raccapricciante e spaventoso che abbia mai ricevuto».

A distanza di qualche settimana, riesce a guardare i video di Mozythyn e Bucha?
«I corpi di mia madre, mio padre e mio fratello sono stati trovati dall’esercito ucraino con le mani legate ed evidenti segni di tortura. Gettati in una fossa comune insieme a un quarto corpo. Mio marito ha raggiunto il villaggio per assicurarsi che fossero loro. Io non ce la faccio. Ma sono orgogliosa di aver avuto la mia famiglia, erano dei patrioti. Hanno aiutato gli altri fino all’ultimo giorno di vita. I colpevoli devono essere puniti, vivo per assicurarmi che questo accada».

Oscar Maresca

Curioso di professione, giornalista per passione. Classe ’98, nato a Napoli. Innamorato delle storie da raccontare e del calcio. Pubblicista dal 2017, praticante per MasterX, collaboro per La Gazzetta dello Sport. A Milano per scelta. Sogno e scrivo, non necessariamente in questo ordine.

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