È il 20 novembre del 2018. Nel villaggio di Chakama, sulle coste del Kenya, lo scoppio di un petardo e una serie di spari risuonano tra le abitazioni. Sembrava un martedì sera come un altro, ma nel giro di pochi istanti tutto sprofonda nel caos: vengono ferite cinque persone, tra cui due bambini. Poi, la polvere torna a posarsi sul suolo, accompagnata da un assordante silenzio. Silvia non c’è più. Silvia è stata rapita.
Silvia Costanza Romano, 23 anni, è una volontaria. Nata a Milano, era impegnata in una collaborazione con la Ong Africa Milele Onlus, da tempo attiva nella zona kenyota attraverso una molteplicità di progetti umanitari. «Era entusiasta dell’esperienza in Africa. Voleva lavorare lì», dirà di lei l’amica di Giulia Frosi, che lavora come selezionatrice per la medesima Ong.
Ma cosa sono le ONG?
Le Organizzazioni Non Governative (Ong) sono associazioni private, senza fini di lucro, che promuovono e realizzano azioni di cooperazione internazionale finalizzate allo sviluppo dei paesi poveri. Per beneficiare dei contributi della cooperazione italiana devono ottenere il riconoscimento da parte del Ministero degli affari esteri. Tale riconoscimento è previsto dal 1979 (legge 38 sulla cooperazione) e, in particolare dalla legge di riforma (49/87). Le Ong riconosciute ai sensi della Legge 49/1987 sono considerate Onlus di diritto. L’elenco di queste associazioni è tenuto dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, a sua volta sottoposta al controllo ed indirizzo del Ministero degli affari esteri tramite la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo.
Come Silvia, sono tantissimi i giovani italiani che collaborano con questo tipo di organizzazioni: già nel marzo 2017 se ne contavano più di 21mila, distribuiti tra 230 associazioni riconosciute nel nostro Paese. La cooperazione allo sviluppo è un movimento vivo, forte, resiliente. E proprio grazie a questi ragazzi sopravvivrà anche a un momento storico in cui xenofobia e nazionalismo rischiano di soffocare i valori umani.
Ma come vivono le avventure di questi giovani le persone a loro più vicine? Lo abbiamo chiesto alle madri di tre volontarie. Queste sono le loro storie.
«L’ho assecondata fin dal primo momento, tanto che abbiamo cercato insieme il progetto». Sorride orgogliosa Lorena, la mamma di Ylenia, raccontando l’esperienza di volontariato di sua figlia in Cambogia. «Sono sempre stata dell’idea che un’esperienza all’estero sia fondamentale. Se poi si parla di un progetto di cooperazione internazionale, allora ritengo che possa essere formativa non solo dal punto di vista professionale, ma ancora prima a livello umano», aggiunge.
Ylenia ha trascorso la sua esperienza a Phnom Penh, capitale del Paese, dove ha collaborato con la Ong SFODA. Qui ha lavorato in un orfanotrofio collocato nelle cosiddette “slums”, le baraccopoli che sorgono in riva al fiume, insegnando inglese ai bambini e facendo da animatrice.
«Ho accolto la sua decisione di conoscere una nuova cultura con grande entusiasmo e felicità, ma contestualmente ho anche realizzato che far parte di un progetto internazionale avrebbe portato dei rischi», continua Lorena. «Mia figlia mi ha confessato che un’esperienza brutta c’è stata, ma la bellezza dei luoghi, della scoperta, del sorriso dei bambini l’ha ripagata per tutti gli sforzi e i sacrifici che ha dovuto affrontare, per le paure e le preoccupazioni di un luogo così lontano».
Anche Michela, la mamma di Anna, ha saputo assecondare sua figlia, sebbene ammette che in un primo tempo abbia provato qualche dubbio. «Ovviamente i timori ci sono, fanno parte del ruolo materno ed è normale che sia così, soprattutto all’inizio», spiega. «Alla fine però ha prevalso la consapevolezza che era ciò che Anna desiderava, così l’ho accettato. È stato un motivo di orgoglio, perché ritengo che questi progetti di cooperazione internazionale siano fondamentali per i paesi bisognosi».
Anna ha collaborato con l’IFRC – Fondazione internazionale della Croce Rossa, svolgendo una serie di attività in Perù per un progetto di migrazione: dalla comunicazione e l’information management all’inclusione sociale, come con i bambini di un asilo della capitale, Lima.
Michela ne traccia un bilancio più che positivo, ma non nasconde qualche perplessità sulla tutela di queste iniziative da parte dello Stato. «Purtroppo, ultimamente il Governo ha ridotto le risorse economiche destinate alle Ong e mostrato un atteggiamento a tratti critico nei confronti del loro operato».
Qualche preoccupazione, inizialmente, l’aveva provata anche Giusy, la mamma di Giulia. «Quando ha preso questa nuova strada la prima sensazione è stata una forte paura, ero in apprensione perché non avevo idea di cosa la aspettasse. Ero orgogliosa, certo, perché la sua decisione è stata anche sintomo di crescita, ma ero prevalentemente preoccupata».
Giulia è partita per la Romania a marzo e vi resterà per sei mesi: lì collabora con l’Asociația Lumea Lui Pinocchio, a Panciu. Lavora principalmente con i bambini della comunità ROMA o con situazioni difficili, che li portano ad essere discriminati. Voleva uscire dalla propria zona di comfort, conoscere una nuova nazione, una nuova lingua, una nuova cultura. Ma soprattutto, come ripete la mamma, «ha scelto di essere volontaria perché sente di avere qualcosa da dare».
Anche quest’ultima, dopo i timori iniziali, si è convinta della scelta di sua figlia. «Si tratta di un’esperienza molto bella e formativa e soprattutto rappresenta un meraviglioso insegnamento per i bambini: è fondamentale sapere che c’è qualcuno che lotta per te, qualcuno su cui puoi contare».
Parola alle ONG
Ma in che modo le Ong tutelano questi ragazzi? Mario Zuppiroli, presidente della Ong Movimento Africa ’70, risponde così: «la nostra ONG assicura i propri cooperanti e volontari all’estero, la copertura assicurativa riguarda le eventuali spese mediche e l’assistenza in remoto della compagnia assicuratrice, determinati rimborsi in caso di danni».
«Le regole di sicurezza variano da paese a paese e da zona a zona. Ogni equipe locale definisce in accordo con la nostra sede le norme da seguire e le aggiorna nel tempo, a seconda dell’evolversi della situazione nel contesto specifico, ma tendenzialmente i luoghi dove si lavora in progetti di cooperazione allo sviluppo non sono particolarmente pericolosi», conclude.
Purtroppo il 20 novembre scorso, nel villaggio di Chakama, non è andata così. Ma anche dopo cinque lunghi mesi di silenzio da quella sera, rimane ancora accesa una speranza.
La speranza che le ricerche continuino e che Silvia venga finalmente ritrovata.
La speranza che ogni madre nutre di riabbracciare la propria figlia.
La speranza che queste ragazze portano nel mondo, laddove ve ne è più bisogno.