Manca poco più di un mese all’uscita ufficiale della Gran Bretagna dall’Unione europea, prevista esattamente per il 29 marzo 2019 alle ore 23.00, ma al momento sono ancora molti i dubbi e le incertezze che regnano attorno alla Brexit. Uno scenario, questo, che avrebbe non poche conseguenze sull’economia non solo europea ma anche internazionale. Cresce infatti il numero delle società che hanno annunciato o stanno pensando di lasciare Londra come sede dei propri affari.
Il caso più recente è quello di Honda. La casa automobilistica giapponese chiuderà il proprio stabilimento a Swindon, piccola città a sud-ovest di Londra. Avverrà nel 2022 e le motivazioni, seppur non confermate dallo stesso colosso nipponico, sono da ritrovare probabilmente nella Brexit, considerata da molte aziende un’incognita troppo rischiosa per gli investimenti, e nei conseguenti cambiamenti senza precedenti nell’industria automobilistica globale. Questo provvedimento porterà all’eliminazione di circa 3.500 posti di lavoro. Fonti interne alla Honda hanno comunque fatto sapere che il secondo quartier generale presente in Inghilterra, nella città di Bracknell, rimarrà attivo.
Non molti giorni prima è stata un’altra casa automobilistica giapponese ad annunciare una netta moderazione del proprio business nel Regno Unito. Il 3 febbraio scorso la Nissan ha comunicato la propria decisione di non produrre più il fuoristrada X Trail nello stabilimento di Sunderland, a nord-est dell’Inghilterra, preferendo concentrare la produzione in Giappone. Nel comunicato rilasciato dall’azienda vengono citate diverse ragioni, ma una è sottolineata in particolar modo: «La continua incertezza sul futuro dei rapporti del Regno Unito con l’Unione Europea non aiuta compagnie come la nostra a programmare il futuro». Per la città, di circa 200 mila abitanti, non si prospetta un futuro florido: l’economia locale dipende in grande misura proprio dallo stabilimento della Nissan, che produce l’80% delle auto vendute in tutta Europa. Proprio prima del referendum britannico del 2016 sull’Unione Europea, la società aveva avvertito che, se la Brexit avesse causato il pagamento di dazi sulle esportazioni, sarebbe stata costretta a trasferire altrove la produzione. Successivamente il governo di Theresa May ha rassicurato la Nissan, e con loro molte altre aziende internazionali, che un accordo con Bruxelles avrebbe evitato spese doganali sull’import-export. Così il colosso giapponese ha confermato la produzione del suv X Trail su territorio britannico, garantendo nuovi investimenti e nuovi posti di lavoro. Ma con la Brexit sempre più vicina e un ipotizzabile accordo sempre più lontano, è stato necessario un totale cambio di rotta.
Stessa situazione in casa Jaguar Land Rover, che a lungo ha sperato in una possibile intesa con Bruxelles vantaggiosa per i propri affari nel Regno Unito, ma che già nel corso del 2018 ha dato le prime avvertenze di un eventuale piano di taglio dei costi che, secondo alcune stime e indiscrezioni raccolte dal Financial Times, comporterebbe una riduzione dell’occupazione di circa 5.000 addetti. La causa ormai la conosciamo. E i derivanti rallentamenti delle vendite in mercati notevoli come Cina, Stati Uniti ed Europa di certo sono da non sottovalutare.
Ma l’incertezza per l’industria automobilistica inglese non finisce qua. Anche Ford sembra temere il no deal. Secondo quanto raccolto dal Times da una conference call tra Theresa May e diverse imprese, l’azienda statunitense starebbe velocizzando i tempi e preparativi per spostare la propria attività produttiva, probabilmente in Germania. Da decenni ormai la casa di Detroit comanda le classifiche di vendita nel Regno Unito, ma alcune stime prevedono una perdita di circa un miliardo di dollari in caso di “hard” Brexit (ovvero senza nessun tipo di accordo con l’Ue sui rapporti commerciali). A questo si aggiungono anche i circa 13 mila dipendenti legati alle sedi inglesi.
Queste preoccupazioni non riguardano ovviamente solo il settore automobilistico. L’amministratore delegato del colosso dell’aerospaziale Airbus, Tom Enders, ha avvertito in un video-messaggio pubblicato sul loro sito online possibili ritorsioni anche per la loro economia nel Regno Unito: «È un peccato che, più di due anni dopo il referendum del 2016, le aziende non possano ancora pianificare il futuro. Se ci sarà Brexit senza accordo, dovremo prendere decisioni potenzialmente molto dolorose per la Gran Bretagna».
Gli stessi timori hanno spinto la multinazionale Sony a trasferire la propria sede europea in Olanda, registrata ufficialmente lo scorso dicembre e si fonderà con Sony Europe, che ha sede in Inghilterra, entro la fine di marzo. Un portavoce ha specificato al Financial Times che nessuno dei suoi 900 dipendenti verrà licenziato o trasferito. Gli uffici non dovrebbero subire gravi conseguenze grazie al regime fiscale olandese, il quale permette di pagare gran parte delle tasse nel Regno Unito. Lo spostamento però consente a Sony di rimanere sul mercato europeo riparandosi da eventuali difficoltà legate alla circolazione dei propri prodotti.
La prima azienda a comunicare il proprio addio agli inglesi è stata Panasonic. L’amministratore delegato, Laurent Abadie, ha reso noto il 30 agosto 2018 che nell’ottobre successivo il quartier generale di Londra sarebbe stato abbandonato per spostarsi ad Amsterdam, nei Paesi Bassi. La questione è stata presa in considerazione a lungo, proprio sull’onda di preoccupazione per questioni legate al libero movimento di merci e persone. A traferirsi è stato quindi il settore finanziario della ditta, mentre su territorio britannico rimangono i dipendenti che curano le relazioni con gli investitori.
Come ciliegina su una torta dal sapore piuttosto amaro, si aggiunge l’assurdo caso di Dyson, la famosa inglesissima società che produce aspirapolveri. A capo si trova James Dyson, 71 anni, uno degli uomini più ricchi del Regno Unito. Ebbene, proprio durante la campagna referendaria è stato uno dei più accesi sostenitori della Brexit, dichiarando più e più volte che l’esclusione dall’Unione Europea avrebbe garantito all’economia britannica molti investimenti e posti di lavoro. Ecco però che, ora che il “sì” ha vinto e che Theresa May sta facendo di tutto per moderare questa uscita, James Dyson sta facendo come tutte le altre società, da sempre critiche alla Brexit: ha annunciato di voler trasferire la sede principale del suo impegno dall’attuale Malmesbury, nel Wiltshire, a Singapore. Ha ovviamente specificato che questo non ha niente a che vedere con la situazione politica ma per «essere più vicini ai mercati emergenti che crescono velocemente». Una giustificazione che convince poco. L’economia britannica subirà un boom con la Brexit, certo, ma meglio guardarlo da lontano.