Ecco chi è Kamala Harris, erede designata di Joe Biden

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Biden out, Harris in. Con l’annuncio del ritiro dalla corsa presidenziale dell’attuale presidente americano, Kamala Harris è pronta a guadagnarsi il posto di candidata democratica. «Farò di tutto per guadagnarmi la nomination, e unire il Partito democratico e la nostra nazione per sconfiggere Trump». Forte anche del sostegno dello stesso Biden, che ha dichiarato inequivocabilmente il suo appoggio.

Chi è Kamala Harris

Kamala è la donna delle prime volte. È stata la prima donna nera a servire da procuratrice distrettuale e poi procuratrice generale (in California). È stata la prima donna di colore e prima indiana-americana a essere eletta senatrice nonché – ovviamente – a essere scelta come vicepresidente. E ora ha la possibilità di diventare la prima donna ad abitare la Casa Bianca.

Kamala Harris nasce nel 1964 a Oakland, in California, da due attivisti usciti dalla celebre Università di Berkley. In onore delle sue origini indiane, la madre sceglie il nome ‘Kamala’: epiteto per indicare la dea indù Lakshmi, è simbolo dell’emancipazione della donna. Si laurea in Scienze politiche ed Economia alla Howard University e nel 1990 diventa avvocato, lavorando come assistente procuratore distrettuale a Oakland. 

Qui inizia la sua scalata professionale, incentrata su i medesimi temi: diritti, parità di genere e uguaglianza sociale. Diventa prima procuratrice distrettuale a San Francisco e poi generale nello stato della California. In questo periodo l’amministrazione Obama la valuta seriamente come candidata alla Corte Suprema. Nel 2016 è eletta al Senato battendo l’espertissima Loretta Sanchez, e diventa celebre per i suoi violenti interrogatori contro esponenti repubblicani tra cui il ministro della Giustizia trumpiano Jeff Sessions.

Nel 2020 decide di candidarsi alla presidenza e non risparmia diversi colpi a Biden durante la campagna elettorale. Alla fine il ticket democratico va all’attuale presidente, che si affretta a sceglierla come vice. Compito che Kamala ha svolto rimanendo quasi sempre nell’ombra del POTUS (President of the United States), forse per rispetto – troppo ossequioso – del messaggio che spesso la madre le ripeteva: «Potrai essere la prima, ma assicurati di non essere mai l’ultima».

I dubbi su Kamala

I pregi sono evidenti, soprattutto in ambito dem. Le sue posizioni progressiste sono sempre rimaste salde, la sua verve forense potrebbe essere un’arma in più in una possibile sfida aperta con Donald Trump.

Come ulteriore asso nella manica di Kamala sarebbe il tema dell’età. Dovesse vincere lei il ticket democratico per le presidenziali, sarebbe il tycoon repubblicano a essere lo sfidante anziano. E si distanzierebbe ancor di più da The Donald per il suo passato: lei procuratrice distrettuale e generale, contro lui pluricondannato (solo quest’anno è stato condannato per 34 capi di imputazione nel caso Stormy Daniels).

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Donald Trump si dirige al tribunale di Manhattan per il processo sul caso Stormy Daniels

Ma altrettanti sono i punti di debolezza della sua candidatura. A fare da contraltare alla sua abilità oratoria c’è la diffusa percezione di un’eccessiva radicalità delle idee. Per esempio durante la campagna nel 2020 propose il Medicare for all, una riforma radicale del sistema sanitario che lo rendesse universale. Atto che neanche lo stesso Biden, pur democratico ma ‘moderato’, aveva osato presentare agli elettori.

In più fanno riflettere le parole di Gil Duran, suo portavoce quando Kamala era procuratrice capo della California: «È ambiziosa e molto dotata. Non pensavamo potesse arrivare fino al vertice perché manca di disciplina ed è incapace di focalizzarsi su ciò che davvero conta. È un diamante grezzo». E in questi anni di vicepresidenza, non sembra che la pietra preziosa si sia raffinata.

Agli occhi degli americani, la sua immagine non è decollata. Se il giudizio sulla presidenza Biden è pressoché negativo per la maggioranza dei cittadini d’oltreoceano, è inevitabile che questo sguardo ricada anche su chi era il braccio destro del POTUS. Harris non solo non può distanziarsi dalle politiche di Biden, ma rischia di pagare cara la gestione disastrosa della questione migratoria.

Nel suo primo viaggio da vice proclamò in Guatemala: «Non vi vogliamo negli Usa, restate dove siete». Se per la sinistra radicale no border è una traditrice del progressismo, per la destra quelle parole sono una promessa non adempiuta. I confini sembrano più permeabili che mai e la crisi del border è uno dei cavalli di battaglia della campagna pro-Trump, che sta raccogliendo consensi perfino tra neri e latinos. Proprio su questo tema verterà la principale linea d’attacco repubblicana: l’unico dossier che Biden le ha direttamente affidato è stato per loro un fallimento. «Figurarsi se dovesse governare tutto il resto, dall’economia al futuro del mondo».

«Lei fu scelta non per le sue competenze, modeste, quanto perché donna e di colore. Una sua bocciatura scatenerà accuse di razzismo e sessismo», scrive Federico Rampini sul Corriere. Dall’altra parte, però, «una sua candidatura rischia di confermare nell’America bianca – il 60% degli elettori – che la sinistra difende solo i diritti delle minoranze […]. È una trappola in cui Biden s’infilò nel 2020 per placare l’ala radicale».

Donazioni e convention

What now? E ora cosa succede? La domanda è martellante per tutti i dem americani. Nelle prime ore dopo lo scossone di domenica 21 luglio sono emerse due possibilità.

La prima, più semplice, è quella di una transizione senza intoppi da Biden a Kamala. Un’opzione che sorriderebbe ai democratici anche dal punto di vista logistico: fin dall’inizio la campagna elettorale è stata portata avanti sotto un doppio nome ‘Biden-Harris’. Il che significa che gli oltre 300 milioni di donazioni raccolti potranno senza grosse difficoltà essere sfruttati anche dalla 59enne, che nelle prime ore dal suo annuncio della corsa per il ticket ha già raccolto altri 50 milioni.

Biden Kamala Harris
Il presidente Joe Biden (ultimo a destra) e Kamala Harris (seconda da sinistra) all’inauguration day di Biden, il 20 gennaio 2021

L’alternativa – più rispettosa dei principi democratici – passa per la convention democratica, che si terrà a Chicago dal 19 al 22 agosto. In questo caso ci sarebbe la possibilità per i maggiori esponenti del partito di presentare la loro candidatura e dibattere di fronte a 4698 delegati e superdelegati, a cui sarà rimessa la decisione finale.

Sono molti i dem di spicco che hanno già appoggiato Kamala Harris: Nancy Pelosi, Hillary Clinton, la deputata progressista Alexandra Ocasio-Cortez, ma anche i governatori di numerosi Stati (North Carolina, Kentucky, Pennsylvania, Minnesota e California). Quasi tutti sono nella lista, già elaborata da Kamala, dei papabili vice nel caso fosse eletta alla Casa Bianca.

Altrettanti sono i democratici preoccupati per il futuro del partito: Barack Obama su tutti preferirebbe decidere il futuro dei dem durante la convention. Qui sarebbero pronti a entrare in pista altri politici: dalla governatrice del Michigan Gretchen Whitmer, a Josh Shapiro governatore della Pennsylvania. Ma anche il governatore del Maryland Wes Moore e il senatore Joe Manchin dello Stato del West Virginia.

Trump contro

«Chi sta governando il nostro Paese in questo momento? Non è Joe “il corrotto”, che non ha neanche idea di dove si trovi. Se non può candidarsi, non può governare il nostro Paese». L’attacco di Trump al presidente attuale non si è fatto attendere ed è arrivato per tramite del social Truth. 

Di certo la decisione di Biden rimette tutto in gioco. Quella che prima sembrava una vittoria quasi certa, ora diventa incerta. Non perché Harris sposti di molto i sondaggi – alla fine non è distante dai numeri di Biden – ma perché di qui a 106 giorni tutto può succedere. Quella ampia zona grigia di elettori non schierati dovrà rivalutare le posizioni assunte negli ultimi mesi e fare una nuova scelta. Quale sarà è impossibile saperlo.

Trump Vance
Il candidato repubblicano Donald Trump con il suo giovane vice JD Vance

Un’ultima nota, più una curiosità che altro. Sia nel 2011 che nel 2013 lo stesso Trump sostenne la candidatura di Kamala Harris come procuratrice generale della California. Era un tycoon ancora lontano dalla politica e dalle fila repubblicane: «Do a tutti. Quando ho bisogno di qualcosa due o tre anni dopo, li chiamo e so che loro sono lì per me». Difficile che questa logica regga ancora con Kamala Harris, che sembra destinata a essere l’ultimo ostacolo tra Trump e il suo ritorno alla Casa Bianca.

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