Una doppia emergenza?
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato che la crisi di Ebola nella Repubblica Democratica del Congo è “emergenza sanitaria pubblica internazionale”. L’ente ha innalzato il livello di guardia rispetto al 12 aprile scorso, quando aveva rilasciato un comunicato per spiegare che l’allerta non era ancora così preoccupante.
“È tempo che il mondo prenda coscienza e raddoppi i suoi sforzi. Dobbiamo lavorare insieme alla DRC per porre fine a questa epidemia e costruire un sistema sanitario migliore». Queste le parole del Dr. Tedros, direttore generale dell’OMS dal 2017.
Today the @WHO Emergency Committee recommended that I declare the #Ebola outbreak in #DRC a public health emergency of international concern. I have accepted that advice. Now it's time for the international community to show solidarity with the people of DRC, not to isolate them.
— Tedros Adhanom Ghebreyesus (@DrTedros) July 17, 2019
Il 17 luglio gli esperti del comitato si sono riuniti a Ginevra per la quarta volta dal 1 agosto 2018, data dell’inizio dell’epidemia. L’OMS ha deciso di dichiarare l’emergenza in seguito alla prima diagnosi della malattia a Goma, una metropoli di due milioni di abitanti, risalente al 14 luglio. Evento che ha fatto presumere che ad oggi Ebola abbia un raggio d’azione stimato di circa 500 km.
Dall’agosto 2018 la conta dei malati accertati ha superato i 2500 casi, mentre il numero dei morti ha raggiunto negli ultimi giorni oltre 1600 unità. Il numero dei nuovi casi si aggira intorno alle 12 persone al giorno. Cifre da non sottovalutare, visto l’alto tasso infettivo del virus, che si trasmette tramite i liquidi corporei.
Quella contro il virus Ebola è forse una delle sfide più urgenti che il governo del presidente Felix Tshisekedi deve affrontare, ma non è l’unica. Per Carlos Navarro Colorado, responsabile di Unicef, l’altra grave epidemia che ammorba la nazione è la paura. «Lo dico sempre al mio team, noi combattiamo contro Ebola e contro il panico, diffuso a causa della disinformazione sempre più dilagante». Una situazione precaria, se vi si aggiunge anche lo scenario politico incerto dello Stato, che tra dicembre e gennaio ha assistito a una crisi di governo a causa delle elezioni, e del loro esito nebuloso.
Lo stato di conflitto in cui versava la regione in quei mesi, e in quelli precedenti, ha infatti contribuito al rallentamento – e in alcuni casi allo stop forzato – dell’azione delle associazioni sanitarie e dei professionisti che si occupano di arginare il focolaio di infezione. Realtà che ha permesso la proliferazione ulteriore di una serie di storie e leggende che hanno potenzialmente allargato lo spettro d’azione di Ebola.
I punti principali della conf. stampa di oggi dove la nostra Presidente ha parlato dei drammatici sviluppi di #Ebola nella #RDC.
Recentemente siamo stati costretti a sospendere le nostre operazione perché due dei nostri centri sono stati attaccati. https://t.co/HQdNu0mzzO pic.twitter.com/Yu7Q3g8Cph— MediciSenzaFrontiere (@MSF_ITALIA) March 7, 2019
La relazione con la politica
Ma come possono un virus letale e pericolosamente infettivo e le fake news andare di pari passo? A spiegarlo sono i fatti. Nel settembre 2018 un politico appartenente all’allora opposizione, Crispin Mbindule Mitono, ha detto durante un’ospitata in un programma in onda su un’emittente radiofonica locale che il virus Ebola è stato creato in laboratorio per volere del governo di Joseph Kabila. Lo scopo, secondo la delirante versione di Mitono, era quello di sterminare la popolazione della città di Beni, una delle prime località in cui si è sviluppato il focolaio nell’agosto dello stesso anno.
Qualche mese dopo, il 26 dicembre 2018, gli agglomerati urbani di Beni e Butembo sono stati esclusi dal voto alle urne per l’elezione del nuovo governo a causa del galoppare dell’epidemia. Il giorno seguente, alcuni centri specializzati nella cura del virus sono stati presi di mira dai manifestanti durante accese proteste. Lo stesso è accaduto nel febbraio 2019, dopo la comunicazione dell’esito delle elezioni e del nome del nuovo presidente della nazione, e gli ultimi attacchi risalgono ai primi giorni di maggio.
La politica gioca un ruolo così forte nella diffusione di Ebola perché il popolo non ha fiducia nei rappresentati al potere, e, complice anche la scarsa educazione, è più propenso a credere a quello che ai loro occhi può sembrare più vicino al reale, nonostante si tratti di mere teorie complottiste. Chi conferma questa tesi sono gli operatori delle organizzazioni che lavorano quotidianamente sul campo. Unicef, Save The Children e Medici Senza Frontiere: tutti raccontano questa realtà tramite testimonianze dirette.
Leggende pericolose
Lo stigma che i malati di Ebola si caricano sulle spalle è ancora uno scoglio difficile da superare. Nel 2014, il primo anno in cui l’Oms ha etichettato l’epidemia del virus un’emergenza sanitaria pubblica internazionale, le precauzioni prese per evitare un’ulteriore diffusione della malattia avevano destato non pochi sospetti nelle popolazioni dell’Africa occidentale colpite dal morbo: i morti venivano seppelliti in fretta, con i corpi sigillati in ingombranti sacchi scuri, e i malati venivano allontanati dalle comunità per poter essere curati nei centri specializzati, da dove spesso non uscivano più. I parenti non potevano vederli o salutare i cari prima della sepoltura.
Questa situazione di grande “oscurantismo” aveva contribuito alla diffusione di un’aurea di mistero legata a Ebola. Si pensava che fosse qualcosa di spaventoso, addirittura alcune piccole comunità locali ritenevano che fosse uno spirito maligno. Credenze che, con il ridimensionamento dell’emergenza, erano state confinate in un angolino remoto della mente delle popolazioni. Fino all’estate scorsa, quando il virus ha ricominciato a colpire, e le leggende sono tornate a galla. Diffusissima, anche a causa della teoria di alcuni politici dell’ala di opposizione, secondo cui il virus era stato creato in un laboratorio sotto il diretto controllo del governo.
Stando a quanto reso pubblico da una ricerca condotta da Patrick Vinck, docente nel dipartimento di Global Health dell’Università di Harvard, il numero di quanti ritengono che il virus non sia altro che un’arma politica creata a tavolino è ancora molto elevato, complice anche il clima di incertezza e violenza che ha preceduto le elezioni. I ricercatori di Harvard hanno intervistato oltre 900 persone tra Beni e Butembo, le due città che sono state private della possibilità di andare alle urne a causa dell’epidemia di ebola. Hanno scoperto che 370 di loro ritengono che la malattia sia nata per mano del governo, nel tentativo di impedire alle zone storicamente d’opposizione – come appunto quelle dove sorgono Beni e Butembo – di votare alle elezioni politiche.
Anche la notizia della creazione di un vaccino sperimentale, una possibile arma per contrastare la diffusione e la mortalità della malattia, è stata accolta timidamente, e attorniata da una ingente quantità di leggende infondate. Molti genitori, secondo quanto riportato in un report di Save The Children, si sono rifiutati di vaccinare i loro figli per la scarsità di informazioni a riguardo. Alcuni pensavano che la somministrazione delle terapie di immunizzazione potesse comportare la trasmissione della malattia. Nei villaggi circolava anche la voce che chiunque si fosse vaccinato, sarebbe morto.
Nel frattempo sono state avviate ingenti campagne di informazione e finora sono oltre 160 mila le persone a cui è stata somministrata una dose di rVSV-ZEBOV, il vaccino sperimentale prodotto dall’azienda farmaceutica tedesca Merck. Un traguardo importante, che però non è ancora riuscito a limitare la diffusione di ebola.
Agire (e reagire) contro la disinformazione
Negli Stati Uniti è stato coniato il termine “misinfodemic”. Con esso si indicano tutte quelle epidemie di fake news a sfondo scientifico, che hanno seri e preoccupanti impatti sulla vita e sulla salute delle persone. È il caso di Ebola, ma anche dei vaccini, per prendere ad esempio qualcosa che è più vicino alla vita quotidiana di tutti. Questo atteggiamento è dovuto al mistero e al “buio” informativo che caratterizza alcuni temi. I professionisti, i medici e gli operatori hanno capito che per rischiarare una realtà così incerta e precaria – come quella del Congo in piena emergenza Ebola – c’è bisogno di trasparenza, anche in senso letterale.
Questa consapevolezza, unita all’esperienza della prima grande epidemia del 2014, ha portato a una serie di piccole ma fondamentali innovazioni nella cura e nel trattamento dei malati di ebola. Sociologi e operatori locali, che fungono da tramite con la popolazione, scandagliano i social network – una vera e propria fonte di incubazione e diffusione delle fake news che riguardano il virus – nel tentativo di intercettare e bloccare notizie infondate.
Un primo esperimento di questo tipo era nato proprio nel 2014, quando la BBC aveva aperto la pagina Facebook BBC Ebola Service, pensata per essere una community di scambio informazioni relative al virus. La pagina sul social network di Menlo Park lavorava parallelamente a un numero Whatsapp, che contava 22mila iscritti che ricevevano quotidianamente alert, foto e video per essere costantemente informati sul virus.
Il 1 aprile la pagina è stata chiusa, facendo confluire la community nella sezione BBC News Africa del sito web della testata anglosassone, ma è stato il primo esempio di tamtam mediatico diffuso tramite una piattaforma social per questioni umanitarie.
L’esperienza, rivelatasi positiva, ha portato a un incremento degli sforzi per contrastare le fake news e diffondere quanta più corretta informazione possibile, tanto da far correre ai ripari persino il governo della Repubblica Democratica del Congo. È stato istituito un team di giovani che danno la caccia alle fake news che circolano su Whatsapp, che attualmente è una delle app più utilizzate dalla popolazione: mano a mano che le voci emergono dalla piattaforma e dai contatti tramite i membri delle comunità, gli esperti di comunicazione confutano le notizie false usando lo stesso veicolo oppure parlando alla radio locale. Con un’accortezza in più rispetto al passato: la notizia priva di fondamento non viene mai ripetuta, seguendo le più recenti linee guida di organizzazioni dedite alla lotta alla disinformazione come First Draft o Google News Initiative. Si pone infatti l’accento sulle informazioni vere, per aiutare il pubblico a memorizzarle e allo stesso tempo a dimenticare le parti fasulle.
Rispetto e chiarezza prima di tutto
Se però di trasparenza si deve trattare, non basta muoversi sull’immaterialità dei social network, ma c’è la necessità di concretizzare le azioni. E in quest’ottica ha giocato un ruolo fondamentale la testimonianza dei sopravvissuti a Ebola, che spesso diventano volontari nei centri di trattamento e di cura del virus, così come l’evolversi dell’equipaggiamento. Un’organizzazione con sede nel Senegal, Alima, ha progettato infatti la Biosecure Emergency Care Unit for Outbreaks – meglio conosciuta come Cube – una nuova tenda con pareti trasparenti che permette ai parenti di visitare e soprattutto vedere i propri cari durante la quarantena e il periodo delle cure.
Una possibilità che ha permesso di arginare un buon numero di leggende riguardanti il virus, compiendo veri e propri “tour” all’interno dei centri di trattamento. La popolazione ha potuto vedere con i propri occhi la realtà di Ebola, e si è mostrata più disposta a chiedere aiuto nei casi di potenziale contagio. Un’altra novità in nome della trasparenza informativa è la modalità di sepoltura dei morti. In passato, infatti, le vittime di Ebola venivano sepolte racchiuse in sacchi scuri, spesso senza permettere a parenti e amici di vedere il corpo, alimentando le voci che circolavano riguardo la malattia. Girava la leggenda che i corpi fossero stati rubati per il mercato della vendita degli organi.
Sul finire dell’epidemia del 2014, e già dai primi morti del 2018, invece, è stato adottato un protocollo di sepoltura che permette ai cari di vedere e trascorrere del tempo con il corpo dei morti, purché rispettino le condizioni igieniche necessarie e si indossino gli indumenti protettivi. A partire dallo scorso agosto, poi, gli operatori sanitari hanno introdotto l’uso di sacchi trasparenti per i cadaveri, consentendo la massima trasparenza.
L’idea è quella di coniugare le esigenze dei professionisti e dei medici di rallentare e fermare il contagio, e quelle della popolazione che non vuole rinunciare a determinate tradizioni e costumi. Una delle preoccupazioni, che si è rivelata fondata, era quella che le persone arrivassero a non chiedere aiuto una volta riconosciuta Ebola nei sintomi da cui erano affetti, preferendo rimanere nelle proprie abitazioni. Per questo Natalie Roberts, responsabile delle operazioni d’emergenza di Medici Senza Frontiere, ha confermato al New York Times che il protocollo seguito dai medici e dagli operatori è lievemente cambiato, cercando di calibrarsi su una maggior attenzione per gli usi e la sensibilità della popolazione.
Viene lasciato più spazio alle decisioni dei malati, purché essi rispettino una serie di regole per evitare il diffondersi della malattia. C’è chi preferisce attendere i risultati delle analisi nella propria casa. Ma anche chi sceglie di non allontanarsi dal proprio villaggio per andare in un centro di trattamento specializzato, facendosi curare in un ospedale locale. Maggiore libertà (a volte) corrisponde a maggior consenso, e quindi più ampie possibilità di successo. Ed è quello che sperano quanti lottano contro ebola, e contro la disinformazione che non fa altro che amplificarne il raggio d’azione.