Aung San Suu Kyi, consigliere di stato e leader de facto del governo birmano fin dal trionfo alle elezioni del 2015, è stata arrestata dall’esercito del Myanmar, insieme al presidente del parlamento Win Myint. I militari dello stato del sudest asiatico hanno preso il potere imponendo uno stato d’emergenza della durata di un anno. L’ex generale Myint Swe è stato nominato presidente ad interim, delegittimando i risultati ottenuti alle elezioni di novembre dalla Lega Nazionale per la Democrazia, il partito di Aung San Suu Kyi.
Myo Nyunt, portavoce della Lega Nazionale per la Democrazia, ha confermato la notizia dell’arresto dei due leader, definendo gli eventi delle ultime ore un “colpo di stato”. L’esercito birmano ha annunciato di volere indire nuove elezioni “libere e regolari”, non appena concluso lo stato di emergenza di dodici mesi, in modo da poter organizzare un trasferimento di poteri in linea con la Costituzione. Le forze armate birmane – note come Tatmadaw nella lingua sinotibetana parlata in Myanmar – hanno dichiarato, infatti, di non voler opporsi al metodo democratico, bensì di “trovare inaccettabile il processo delle elezioni del 2020”.
L’origine della tensione
Le elezioni in questione, tenutesi l’8 novembre scorso, hanno visto un record di partecipazione da parte della popolazione del Myanmar: secondo le stime, si è recato alle urne oltre il 70% dei 37,7 milioni di cittadini aventi diritto al voto. La Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi ha ottenuto 396 seggi nell’assemblea nazionale. Una vittoria larga considerando che il numero minimo di seggi necessari per formare un governo è 322. Nonostante la commissione elettorale del Myanmar abbia definito il voto trasparente ed equo, l’esercito non ha accettato l’esito delle urne.
Le continue denunce di brogli, che hanno avuto luogo nelle ultime settimane, sono state accompagnate da numerose dichiarazioni di intenti da parte dei gradi alti dell’esercito birmano. Neanche l’invito di Stati Uniti, Nazioni Unite e Unione Europea a rispettare i risultati è stato in grado di sedare le crescenti tensioni. In occasione di un discorso ai militari, il capo delle forze armate Min Aung Hlaing aveva menzionato la possibilità di sospendere la Costituzione nel grave caso in cui questa non fosse stata rispettata.
Il delicato equilibrio di potere tra esercito e governo
È proprio la Costituzione del Myanmar, concessa dalla giunta militare nel 2008 dopo numerose sanzioni internazionali, ad essere al centro delle manovre politiche realizzate dall’esercito nelle ultime ore. Considerata antidemocratica dai partiti di opposizione, la Costituzione birmana, oltre a riservare il 25% dei seggi in parlamento a membri nominati dalle forze armate, consente all’esercito di prendere il potere durante uno stato di emergenza. Una condizione che lo stesso esercito può dichiarare anche per motivazioni vaghe, come per esempio il rischio di distruzione della “solidarietà nazionale”.
Questo delicato equilibrio di potere tra l’esercito, che controlla anche tre ministeri chiave, e il governo della Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, continua a provocare forti tensioni all’interno del processo di transizione dalla dittatura alla democrazia, iniziato nel paese nel 2011. La stessa Suu Kyi, premio Nobel per la Pace nel 1991, è stata aspramente criticata all’estero per non aver preso le distanze dall’esercito durante l’esodo forzato a cui furono costretti 700mila Rohingya nel 2017. Un evento di pulizia etnica che l’Onu definì “di intento genocida”.