Migliaia di lavoratori nordcoreani vengono mandati in Cina per essere impiegati in condizioni di semi-schiavitù in decine di stabilimenti del Paese. Sono costretti a turni massacranti, i loro stipendi vengono trattenuti dai manager, subiscono percosse e umiliazioni di ogni tipo, inclusi svariati episodi di violenze sessuali. E i prodotti realizzati attraverso il loro lavoro vengono poi esportati in Europa e negli Stati Uniti, arrivando sulle nostre tavole, sugli scaffali dei nostri supermercati, nelle mense delle nostre scuole e dei nostri ospedali. La rivelazione di questo presunto sistema di sfruttamento di manodopera a basso costo viene da un’inchiesta realizzata dal The New Yorker in collaborazione con The Outlaw Ocean Project, un’organizzazione no profit che indaga su crimini e abusi commessi in acque internazionali.
I pericoli dell’inchiesta
Partita nel 2023 e conclusa nel febbraio del 2024, l’inchiesta è stata coordinata dal giornalista statunitense e vincitore del premio Pulitzer Ian Urbina. Tale lavoro rappresenta il primo studio dettagliato sul trasferimento di lavoratori dalla Corea del Nord in Cina, ossia nell’unico Paese che intrattiene rapporti di amicizia con il regime di Kim Jong-un. Tale studio avrebbe potuto comportare pesanti punizioni per i giornalisti che lo hanno portato a termine. Gli stessi funzionari locali hanno dichiarato la validità della legge anti-spionaggio nei confronti di quelle persone che tentano di contattare i lavoratori nordcoreani, che cercano di avvicinarsi ai loro luoghi di lavoro o che operano in connessione con testate straniere.
Per realizzare l’inchiesta il team si è avvalso di documenti governativi trapelati, contenuti promozionali, immagini satellitari, notizie locali e forum online. Ha inoltre assoldato alcuni investigatori cinesi, incaricandoli di visitare le fabbriche ed effettuare riprese al loro interno. Soprattutto, il team è riuscito a intervistare alcune delle persone coinvolte nello sfruttamento, ossia venti donne e quattro dei manager che supervisionano il loro lavoro. Se le autorità le avessero scoperte le avrebbero giustiziate, o avrebbero spedito le loro famiglie nei campi di detenzione. Le donne, però, hanno scelto di affrontare questo rischio pur di rivelare al resto del mondo le brutali condizioni di lavoro cui sono costrette.
Condizioni massacranti, stipendi trattenuti e percosse
Il team investigativo ha identificato ben 15 impianti di lavorazione di prodotti ittici che dal 2017 avrebbero impiegato in totale oltre mille lavoratori nordcoreani. A quanto afferma l’inchiesta, queste persone vengono sottoposte a turni massacranti di 14-16 ore, con indosso divise diverse da quelle dei colleghi cinesi, con un solo giorno libero ogni mese e (quasi) senza possibilità di usufruire di ferie o giorni di malattia. I manager trattengono il grosso del loro stipendio – anche il 90% – per poi girarne una parte al governo nordcoreano. Per di più, i lavoratori sono costretti a dormire assieme ad altre trenta persone stipati in dormitori protetti da filo spinato e agenti di sicurezza. Molti hanno raccontato di essere stati picchiati dai manager inviati da Pyongyang per sorvegliarli. «Ci hanno preso a calci e trattato come subumani», ha raccontato una donna che ha passato quattro anni a lavorare vongole nella città cinese di Dandong.
E ancora, prima di essere inviati in Cina ai lavoratori viene chiesto se hanno una famiglia in Nord Corea oppure – per quelli con più di 27 anni – se sono sposati: un modo per scoraggiare ogni tentativo di fuga mediante la minaccia di ritorsioni sui propri parenti. «Se verranno catturati dalle autorità cinesi, verranno rimpatriati con la forza nella Repubblica popolare democratica di Corea, dove affronteranno dure punizioni nei campi di lavoro», ha spiegato Edward Howell, che insegna politica ad Oxford. «Spesso viene sottolineato che, se vieni sorpreso a scappare, verrai ucciso senza lasciare traccia», ha raccontato una donna che ha lavorato per oltre quattro anni in una fabbrica dell’azienda ittica Dalian Haiqing Food.
Abusi sessuali, depressione e suicidi
Non solo percosse e condizioni di coercizione fisica e psicologica: 17 delle 20 lavoratrici intervistate hanno riferito di aver subito abusi sessuali. Ad esempio, i manager fanno finta di pulire qualcosa dalle loro uniformi solo per palpeggiarle. Altri chiamano le lavoratrici nei loro uffici, come se fosse un’emergenza, e poi le costringono a fare sesso. «Dicevano che ero scopa***e e poi all’improvviso afferravano il mio corpo e mi palpavano il seno e mettevano la loro bocca sporca sulla mia e si comportavano in modo disgustoso», ha raccontato una donna che si occupava di trasportare prodotti in uno stabilimento di Dalian, città cinese sulle sponde del Pacifico. «Il momento peggiore e più triste è stato quando sono stata costretta ad avere rapporti sessuali dopo averci portato a una festa con l’alcol», ha raccontato un’altra donna impiegata nell’azienda Donggang Jinhui Foodstuff.
«Il 60-70% di noi è depresso. Ci siamo pentiti di essere venuti in Cina, ma non potevamo tornare a mani vuote», ha raccontato la donna che lavorava le vongole a Dandong. Dai racconti di queste persone emerge infatti un generale senso di tristezza e una solitudine schiacciante. Condizione che, in alcuni casi, porta questi lavoratori a uccidersi. Secondo Radio Free Asia, nel 2023 due donne nordcoreane si sono tolte la vita in stabilimenti tessili. «Se qualcuno muore per suicidio, il responsabile è il manager, quindi lo tengono nascosto per evitare che venga divulgato ad altri lavoratori o al popolo cinese», ha raccontato un’operaia che ha detto di voler morire.
Il programma di lavoro forzato
L’esistenza di un vasto programma di lavoro forzato non è certo una novità. A gestirlo, secondo l’inchiesta, sono diverse entità del regime nordcoreano tra cui Room 39. Si tratta di un’agenzia segreta che supervisiona il riciclaggio di denaro e gli attacchi informatici e che finanzia i programmi di missili balistici e nucleari. Per la Cina il vantaggio di impiegare lavoratori nordcoreani è evidente: le aziende possono pagarli con salari molto più bassi rispetto ai dipendenti locali – anche un quarto dello stipendio – e possono escluderli dai programmi obbligatori di assistenza. Ma anche i lavoratori pensano di poter trarre dei vantaggi dal trasferimento in Cina. Le aziende, infatti, promettono salari intorno ai 270 dollari al mese, laddove lo stesso lavoro nel loro Paese fa guadagnare appena 3 dollari. Peccato che, di questi salari, solo una minima parte entri nelle tasche del lavoratore.
Le autorità nordcoreane selezionano con attenzione le persone da inviare in Cina in base a rigidi criteri come la lealtà politica, l’assenza di oppositori in famiglia e l’altezza. Lo Stato, infatti, invia solo lavoratori alti più di un metro e settanta, per non dare l’idea di un Paese abitato da persone fisicamente deboli. I candidati che passano la selezione seguono corsi di formazione che possono durare fino a un anno. Una volta inviati in Cina, le aziende di reclutamento cinesi gestiscono il loro inserimento nel mercato del lavoro.
Trasferimenti e sanzioni
I trasferimenti di lavoratori nordcoreani costituiscono un importante fonte di valuta estera per il regime di Pyongyang. Nel 2012, ad esempio, la Corea del Nord inviò in Cina circa 40 mila persone, trattenendo una parte dei loro stipendi. Un think tank con sede a Seul stimava per il Partito di Kim Jong-un un guadagno fino a 2.3 miliardi di dollari l’anno. Ma non si tratta solo di trasferimenti verso la Cina. Analoghi flussi di manodopera nordcoreana sarebbero indirizzati verso la Russia, la Polonia, il Qatar, il Mali e l’Uruguay. Ad esempio, migliaia di nordcoreani sarebbero giunti nel piccolo emirato del Golfo per costruire stadi e appartamenti di lusso in occasione dei Mondiali di Calcio del 2022. In Russia centinaia di lavoratori nordcoreani del settore edile vivrebbero negli scantinati degli edifici in costruzione o stipati in roulotte e container.
Dopo i test balistici e nucleari condotti nel 2017, le Nazioni Unite hanno imposto una serie di sanzioni che vietano alle aziende straniere di impiegare manodopera nordcoreana. Evidentemente, però, non tutti i Paesi le applicano. Certo non la Cina, che ufficialmente nega di ospitare lavoratori nordcoreani, per quanto la loro presenza – si legge nell’inchiesta – sia solo un «segreto di Pulcinella». Il Dipartimento di Stato americano ne stima circa 100 mila, impiegati nelle costruzioni, nel tessile, nelle aziende di software e soprattutto nel mercato ittico. Nel 2022 i funzionari cinesi calcolavano circa 80 mila nordcoreani solo a Dandong. Situato sul Pacifico, questo fiorente polo dell’industria ittica da 2 milioni di abitanti è collegato alla città nordcoreana di Sinuiju tramite il Ponte dell’amicizia. Tra le pochissime porte di accesso allo Stato-eremita, lungo l’infrastruttura viaggia quasi il 70% delle merci scambiate tra i due Paesi.
Sugli scaffali, le tavole e le mense dell’Occidente
Oltre alle brutali condizioni di lavoro, l’inchiesta ha ricostruito la filiera di questi prodotti. La scoperta è che una parte di loro arriva sugli scaffali, sulle tavole e nelle mense dei Paesi occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti. Dal 2017 in avanti, ad esempio, oltre 120 mila tonnellate di prodotti ittici realizzati in stabilimenti cinesi che sfruttano manodopera nordcoreana sarebbero stati spediti a più di settanta importatori americani che riforniscono negozi di alimentari come Walmart, Giant e ShopRite. Tali prodotti sarebbero arrivati anche al negozio online Weee!, alla catena di fast food McDonald’s, al più grande distributore alimentare del mondo Sysco, oltre alle mense delle basi militari, delle scuole pubbliche e del Congresso. Certo, l’importazione di questi prodotti è illegale, ma le catene di approvvigionamento dalla Cina spesso sono poco trasparenti.
Quanto all’Europa, l’inchiesta rivela che i prodotti ittici realizzati nelle fabbriche-prigioni cinesi sono stati spediti anche a un’azienda che rifornisce le mense del Parlamento europeo. «Importatori collegati a stabilimenti cinesi che utilizzano manodopera nordcoreana riforniscono supermercati italiani», aggiungono i giornalisti. Ad esempio, dal 2019 il colosso francese dell’ittica Cité Marine ha importato oltre 150 spedizioni di merluzzo e pollock da Dalian Haiqing Food Limited, una delle aziende che sfrutta la manodopera nordcoreana. Questi prodotti, insieme a pesce impanato e nuggets, sono poi arrivati nei supermercati di Carrefour Italia. Coinvolto nell’inchiesta anche il Gruppo DAC, che importa da almeno due aziende che sfruttano la manodopera nordcoreana. Tali prodotti vanno poi a rifornire enti pubblici italiani come scuole e strutture sanitarie: dal 2021 il Gruppo DAC si è aggiudicato almeno 17 contratti pubblici.