A pochi giorni dallo scontro tra Berlino e il Fondo Monetario sull’abnorme surplus commerciale della Germania, che secondo l’Istituzione di Washington andrebbe ridotto, si scopre che le statistiche ufficiali tedesche potrebbero essere ritoccate. Nel tentativo di calmare le acque internazionali, agitate dal mercantilismo tedesco, il Paese guidato da Angela Merkel starebbe cercando di nascondere la polvere sotto il tappeto. Secondo due economisti, Friederike Spiecker e Heiner Flassbeck – già segretario di Stato al ministero delle Finanze sotto il governo Shroder – , i dati dell’Istat tedesco (Destatis) sulla differenza tra esportazioni e importazioni non si accordano con quelli forniti dalla Bundesbank.
Stando agli indici di quest’ultima, l’avanzo tedesco nel 2017 sarebbe maggiore di quello registrato nelle statistiche ufficiali di 80 miliardi. La discrepanza tra le cifre riportate risiede nelle diverse modalità di calcolo. Mentre il surplus stimato dal Destatis è riferito ai valori nominali, e tende a inglobare le variazioni di prezzo, la Bundesbank calcola anche i volumi, ovvero il valore reale al netto dell’inflazione. Insomma, il Destatis non ha tenuto conto dell’aumento del prezzo delle importazioni, dovuto alla crescita del costo del petrolio e delle materie prime, sottostimando il surplus. Infatti, se si guardano i volumi, le importazioni in termini reali si sono contratte.
Ma anche senza una revisione delle stime, l’avanzo della Germania risulta il più grande al mondo, a quota 248 miliardi nel 2016. Superiore persino a quello della Cina, che con un economia che è circa quattro volte quella tedesca, è in attivo di “solo” 190 miliardi di dollari. È chiaro allora perché la Germania sia finita nel mirino del Fondo Monetario. E non potrebbe essere altrimenti. Il surplus tedesco ci dice una cosa: che la Germania vive sulle spalle degli altri. È l’estero infatti ad assorbire i beni tedeschi. Non sorprendono perciò le reazioni degli Stati Uniti, anche loro in deficit con il Paese europeo per 60 miliardi di dollari. D’altronde sono anni che Washington ha inserito la Germania nella lista nera dei «Paesi manipolatori di valuta». Secondo Peter Navarro, Consigliere al commercio della Casa Bianca, Berlino beneficia di un euro «artificialmente sottovalutato», ora a 1.25 contro il dollaro. Se fosse ancorata alla forza dell’economia tedesca, la moneta unica salirebbe fino a 1.70 rispetto al biglietto verde. Insomma, per Navarro, l’euro serve alla Germania per competere in modo scorretto sui mercati.
Inoltre, nei consessi degli ultimi giorni è stato evidenziato come il surplus tedesco violi le stesse regole europee che impongono un tetto anche a questo indicatore, fissato al 6% del Pil. Attualmente l’avanzo tedesco è infatti dell’8.25 %, molto distante da quanto previsto. Il Fondo Monetario, da parte sua, ha chiesto a Berlino di aumentare gli investimenti e far crescere così l’inflazione, al quale il governatore della Bundesbank e probabile successore di Mario Draghi alla Bce, Jens Weidmann, ha opposto una fin de non recevoir, definendo «futile» un qualsiasi tentativo di questo tipo. Purtroppo l’atteggiamento tedesco sembra sottendere più un disegno egemonico che cooperativo, soprattutto nei confronti degli Stati aderenti alla moneta unica. Facendo crescere la propria domanda interna e riducendo il surplus, infatti, la Germania aiuterebbe la crescita dei suoi partner dell’eurozona e renderebbe meno gravoso l’aggiustamento richiesto ai Paesi in crisi. Ma Berlino non è disposta a rinunciare ai lauti guadagni che l’euro le ha fatto ottenere. Dalle sedi internazionali emerge così un’immagine ben diversa da quella che ci viene propalata in Europa. La Germania appare infatti come un generatore di squilibri economici a livello globale.