Da MasterX – Maggio 2019 – N° 2 – Anno 16
1969-2019: poteri d’acquisto a confronto.
A dispetto di quanto il senso comune parrebbe suggerirci, non tutti i prezzi dei beni di largo consumo sono aumentati nel tempo.
Sono passati ottant’anni da quando, nel 1939, Gilberto Mazzi cantava: «Se potessi avere mille lire al mese, senza esagerare, sarei certo di trovare tutta la felicità». Una cifra che oggi farebbe quanto meno sorridere dato che, con la conversione in euro a 1.936,27, non ci si potrebbe comprare nemmeno un caffè. Eppure all’epoca poteva garantire un’esistenza più che dignitosa a chi la percepiva. Un chiaro esempio di come, nei decenni, il nostro Paese abbia visto aumentare esponenzialmente il proprio costo della vita. Fin qui nulla di allarmante, se solo gli stipendi avessero sempre seguito lo stesso andamento. Perché la ricchezza non è – o meglio, non dovrebbe essere – fine a sé stessa, ma dipende dalla quantità e dal valore dei beni di cui si è intenzionati a usufruire. In altre parole, quelle utilizzate già due secoli fa da Vincenzo Cuoco, «la ricchezza è relativa all’oggetto a cui taluno tende: un uomo che abbia trecentomila scudi di rendita è un ricchissimo privato, ma sarebbe un miserabile sovrano».
Così, confrontare la rispettiva progressione di queste due variabili può aiutarci a comprendere come il potere d’acquisto delle nuove generazioni sia, in alcuni casi, molto diverso da quello delle precedenti. Sia nel bene che nel male.
Prendiamo ad esempio quanto accadeva cinquant’anni fa, nel 1969, prima delle crisi energetiche, della volatilità dei cambi, del primato del capitale sul lavoro, dell’esplosione del debito pubblico e – naturalmente – dell’entrata in vigore dell’euro.
All’epoca lo stipendio medio di un impiegato si aggirava intorno alle 150 mila lire. Le quali, riparametrate secondo i più aggiornati coefficienti di conversione Istat basati sulla parità di potere d’acquisto (Ppa), equivarrebbero a 1.461 euro odierni. Attualmente, invece, la retribuzione è salita fino a 1.681 euro mensili. Un incremento del 15%. Sarà stato così anche per i beni di largo consumo?
Quel che costa di più
Tra le merci che hanno subìto rincari non proporzionati all’aumento dei salari troviamo prodotti estremamente diversificati. Il pane è aumentato del 32% (da 2,24 euro al chilo riparametrati Ppa a 2,95 euro attuali), le sigarette Marlboro del 26% (da 4,38 a 5,50 euro), il caffè del 47% (da 68 centesimi a un euro), il trasporto pubblico del 55% (da 0,97 centesimi a 1,50 euro), le coppette gelato dell’86% (da 97 centesimi a 1,80 euro), i pedaggi autostradali del 95% (da 29,21 a 57,10 euro per la tratta Milano-Napoli), i quotidiani del 106% (da 68 centesimi a 1,40 euro). Impennata anche delle utilitarie Fiat, passate da 5.843 euro agli oltre 10 mila attuali (+71%).
Il caso forse più gravoso è però rappresentato delle abitazioni: nel 1969 un metro quadro in una zona semicentrale di Milano costava 200 mila lire. Le quali, riparametrate a parità di potere d’acquisto, corrisponderebbero 1.947 euro attuali. Oggi invece è del tutto usuale sfondare quota 4 mila, il 103% in più. Se dunque cinquant’anni fa per acquistare una casa di cento metri quadri occorrevano come minimo dodici anni di lavoro, adesso ne servono almeno diciannove e mezzo. Stando così le cose, facile comprendere perché due italiani su tre sotto i 34 anni vivano ancora assieme ai genitori. Tuttavia l’aumento più vertiginoso riguarda il bene rifugio per eccellenza, l’oro: nel 1969 un grammo costava 1.022 lire, ossia 9,95 euro riparametrati Ppa, mentre oggi più di 35 (+251%). È questa la variazione più consistente maturata nel periodo in oggetto. Fortunatamente, però, non sempre i prezzi sono andati in crescendo.
Quel che costa di meno
Non sono pochi i beni che, dal 1969, pur essendo rincarati in termini assoluti non lo hanno fatto in relazione agli stipendi percepiti. Tra questi spicca la folta presenza di generi alimentari. La pasta è infatti diminuita del 23% (da 2,60 euro al chilo riparametrati Ppa a 2 euro attuali), il prosciutto di Parma e la carne di manzo del 27% (da 4,11 a 3 euro all’etto e da 20,45 a 15 euro al chilo), lo zucchero del 50% (da 2,38 a 1,20 euro al chilo). Di fatto invariati i prezzi di latte e riso. Stupisce il cinema: cinquant’anni fa un biglietto costava 1.500 lire, equivalenti a 14,60 euro attuali Ppa (il 45% in più rispetto a oggi). In leggerissimo rialzo invece la benzina, ma non abbastanza da risultare meno conveniente rispetto ad allora. A fronte del già citato +15% dei salari è infatti passata da 1,57 a 1,59 euro al litro: un incremento solamente dell’1,3%.
Il segno dei tempi è però dato innanzitutto dal crollo del valore degli elettrodomestici, all’epoca considerati alla stregua di beni di lusso. Un frigorifero costava ben 60 mila lire (584,36 euro attuali Ppa), un televisore 150 mila (1.460 euro attuali Ppa). Dato che attualmente se ne possono trovare di ottimi rispettivamente a 400 e 200 euro, il conto è presto fatto: -31% e -86% rispetto al prezzo del 1969.
Tirando le somme
Si stava meglio quando si stava peggio? In alcuni casi sì, in altri decisamente meno. Certo, nella percezione comune l’aumento del prezzo degli immobili ha un peso non indifferente, ma chi sostiene che in passato costasse tutto di meno è in errore. Perché – lo sottolineiamo ancora – il costo della vita non va mai disgiunto dal potere d’acquisto dell’epoca a cui ci si riferisce. Poi, d’accordo, se un impiegato d’oggi si ritrovasse di colpo catapultato nel ‘69 potrebbe fare una vita da nababbo, ma questa è una pura illusione economica. Con la conversione standard a 1.936,27, i suoi 1.681 euro mensili equivarrebbero infatti a oltre tre milioni di lire. Una cifra che gli permetterebbe, ad esempio, di acquistare tre utilitarie, otto televisori e nove frigoriferi. Nel giro di un anno – tredicesima inclusa – riuscirebbe invece a ottenere una casa milanese da 200 metri quadri e, al contempo, 6 chili e mezzo d’oro (che oggi varrebbero 227.500 euro).
Insomma, quelli che oggi possono sembrarci spiccioli in realtà un tempo non lo erano. E più si va indietro, più questa tendenza assume proporzioni abnormi. Ma qual è la ragione di questo fenomeno? Lo abbiamo chiesto alla professoressa Angela Besana, docente di Economia Politica all’Università Iulm.
L’esperta
«Il generalizzato aumento nel tempo di prezzi e salari – spiega – è il tipico effetto dell’inflazione, processo macroeconomico che ha come esito la perdita di valore della moneta. Alla sua base sta un eccesso della domanda di beni e servizi rispetto alla quantità effettivamente offerta dal mercato. Si tratta comunque di una dinamica non per forza dannosa. Perché se uno sproporzionato aumento dei prezzi può senz’altro rappresentare un grave pericolo per le economie nazionali, è altrettanto vero che l’inflazione può favorire la loro crescita. Questo perché, prima o poi, qualcuno provvederà sicuramente a coprire il suddetto gap tra domanda e offerta, ma solo conseguentemente a un rialzo dei prezzi. Ecco perché la crescita è spesso abbinata a fenomeni di inflazione, mentre la decrescita – come visto nel 2007-2008 – alla deflazione».
L’aumento di prezzi e salari sta dunque a dimostrare che negli ultimi cinquant’anni il Paese è cresciuto?
Esatto, perché rispetto al 1969 sono aumentati non solo gli scambi commerciali, ma anche la popolazione e le fattispecie del commercio stesso, per effetto anche dell’avvento del digitale. La massa monetaria in circolazione, quindi, non è scarsa come una volta, ma è diventata sempre più abbondante. Perciò ha visto diminuire progressivamente il suo valore. Al contrario, sarebbe un problema se i prezzi calassero, perché questo sarebbe sintomo di una contrazione delle transazioni.
Quanto ha contribuito l’ingresso nell’euro all’aumento dell’inflazione?
Spesso la moneta unica è stata accusata di innalzare pressoché tutti i prezzi. Tuttavia, come ha commentato in più occasioni la Banca d’Italia, nel passaggio tra lira ed euro si è verificato un fenomeno di inflazione percepita superiore a quella reale. Quanto al futuro, a fronte di tassi di crescita che stentano ormai a superare l’1%, alcuni prezzi hanno già iniziato a segnalarsi in diminuzione. Speriamo di non doverci aspettare fenomeni deflazionistici.