La recessione è alle spalle. Almeno a giudicare dai recenti dati economici, sembrerebbe che il nostro Paese si sia rimesso in corsa. O meglio in cammino. Perché se è vero che la disoccupazione è scesa in un anno di quasi un punto percentuale – dall’11.9% del 2016 all’11% del 2017 – e il Pil dovrebbe crescere dell’1.6%, al tempo stesso rimaniamo il fanalino di coda dell’eurozona. Peggio di noi soltanto la Grecia. E il problema è che sono vent’anni che non cresciamo. Dal ’97 al 2016 il Pil reale è cresciuto del 7.9%, lo 0.4% all’anno. Una morta gora. Per gli economisti questo declino relativo è dovuto a un fattore: la stagnazione della produttività del lavoro.
Tutti sono concordi nel collocare il punto di svolta a metà degli anni ’90, tra il 1995 e il 1997. Da allora il valore aggiunto per ora lavorata (produttività del lavoro) è cresciuto dello 0.3% annuo, contro una crescita media del 2.1% nel periodo ’80-‘95. Le analisi sui motivi di questo crollo differiscono a seconda della scuola di pensiero degli economisti. Da un lato, quella che possiamo chiamare la scuola neoclassica o liberista si concentra sui fattori dal lato dell’offerta: il barista più bravo è quello che fa più caffè in un’ora. E di conseguenza tende ad attribuire un ruolo decisivo al progresso tecnico. Dall’altro, la scuola keynesiana dà importanza preponderante alla domanda: il barista più bravo è quello che vende più caffè in un’ora. Ne discende l’idea che un’impresa tenderà a investire in ricerca e innovazione, a migliorare i processi produttivi, e quindi ad accrescere la produttività, se saprà di avere a disposizione un mercato per quello che produce. Maggiore è la domanda per i beni dell’impresa, maggiori gli incentivi a migliorarsi.
Il modello neoclassico di crescita, noto come Legge di Solow, dal premio Nobel che lo sviluppò (1956), fa dipendere la crescita economica di lungo periodo essenzialmente dal progresso tecnico. La Legge di Verdoon, invece, ritiene che questa dipenda dalla dinamica della domanda: la produttività aumenta in modo proporzionale al Pil. Ora, le differenze nei due approcci si ripercuotono sull’identificazione delle cause della dinamica piatta della produttività del lavoro italiana. La visione dominante, neoclassica, annovera tra le cause di tale rallentamento il nanismo delle imprese italiane, connesso con la bassa spesa in ricerca e sviluppo (R&S), le rigidità del mercato del lavoro e l’inefficienza della Pa.
UNA SPIEGAZIONE “KEYNESIANA”
Purtroppo, su queste spiegazioni, più o meno condivisibili, fa premio la dinamica storica. Come detto, la produttività del lavoro si blocca improvvisamente tra il ’95 e il ’97, fatto che di per sé esclude tra le sue cause elementi strutturali di lungo periodo. Secondo i dati Ocse, nel 1995 la produttività del lavoro crebbe del 3%, nel ’96 dello 0.1 e da lì la media è stata dello 0.3% all’anno. Non è possibile che a metà anni novanta tutte le imprese siano diventate piccole, la Pa inefficiente e corrotta e il mercato del lavoro troppo rigido. Risulta allora indispensabile un’analisi di cosa è successo a metà anni ’90, prestando particolare attenzione anche alle dinamiche della domanda, ovvero consumi, spesa pubblica ed esportazioni. Le direttrici da prendere in considerazione sono tre: il percorso di ingresso nell’euro, l’adesione alla moneta unica e le riforme del mercato del lavoro.
IL PROCESSO DI INTEGRAZIONE MONETARIA
Nel ’96 l’Italia rivaluta la lira e rientra nel Sistema monetario europeo, un accordo di cambio fisso tra i Paesi dell’Unione europea, a un tasso di cambio sostanzialmente uguale a quello di ingresso nell’euro. Se nel 1995 servivano 2090,93 lire per comprare un Ecu (una sorta di euro ante litteram), nel ’96 ne occorrevano 1913,14, e nel ’97 1936,78. Nel ’96 la lira dunque si rivaluta di circa l’8.5%, il tasso di crescita dell’export crolla dal 13% dell’anno prima allo 0.8%, la crescita della produttività si blocca (0.1%). Dunque, la rivalutazione della lira e il seguente aggancio all’euro nel ’98 spiegano il declino della crescita della produttività attraverso la riduzione dell’export.
L’ipotesi è confermata dai dati sulla produttività disaggregati per settore economico. Come evidenziato da Daveri (Italy’s decline: Getting the facts right, 2005), il rallentamento della produttività si è verificato soprattutto nella manifattura, settore più orientato al commercio internazionale e, in particolare, nel made in Italy, da lui identificato nel tessile e nell’abbigliamento. A fronte di una crescita della produttività del lavoro del 2.8% nel periodo ’70-‘80, del 3% nel ’80-’95, dal ’95 al 2003 l’indice per il manifatturiero crolla allo 0.2%. Inoltre, per Daveri, la riduzione della crescita è dovuta a un calo interno ai singoli settori (“within effect”) piuttosto che a un effetto di ricollocazione dei lavoratori da industrie produttive ad altre caratterizzate da una minore produttività (“beetween industries effect”). In breve, la rivalutazione della lira ha reso meno convenienti i nostri prodotti all’estero, il tasso di crescita dell’export si è ridotto e, di conseguenza, la produttività della manifattura ha smesso di aumentare.
In secondo luogo, la necessità di rispettare i parametri di Maastricht – il tetto del deficit al 3% del Pil, il rapporto debito pubblico-Pil al 60%, tasso di inflazione non superiore di 1.5 punti rispetto alla media dei tre paesi a più bassa inflazione – ha inciso sulla domanda interna, consumi e investimenti, riducendo gli incentivi per le imprese ad accrescere la propria produttività. Se diminuisce la domanda, per le imprese non è conveniente innovarsi e investire dal momento che i loro prodotti rimarrebbero invenduti. La spesa pubblica è infatti passata dal 51.6% del Pil del ’96 al 45.5% del 2000, oscillando poi intorno al 47% fino al 2007. Dal momento che la spesa del governo è un una delle determinanti del Pil, e quindi contribuisce al reddito sia in modo diretto, attraverso gli stipendi pubblici e l’acquisto di beni e servizi, sia indiretto, tramite il fisco, la sua diminuzione ha compresso i mercati di sbocco delle imprese.
LE DISFUNZIONI DELL’EURO
L’ingresso dell’Italia nell’euro ha permesso al nostro Paese di beneficiare di bassi tassi di interesse. L’euro ha dato “credibilità” ai Paesi del Sud Europa. L’Unione economico monetaria ha infatti escluso la possibilità per un Paese di svalutare, fattore che ha spinto i mercati a prestare lautamente ai Paesi del Sud. Questo per due motivi: la certezza di avere indietro euro e non moneta “debole”, e la possibilità di lucrare sui differenziali di inflazione tra i Paesi dell’eurozona. Dalla nascita dell’euro la Germania ha avuto un tasso di inflazione più basso dell’obiettivo della Bce (2%), mentre i Paesi del Sud leggermente superiore. Ad esempio, nel 2003 in Germania l’inflazione era all’1.03%, in Italia al 2.67%, in Spagna al 3.04%. Lo spread tra i tassi di inflazione si è traslato sui rendimenti dei titoli privati e pubblici, rendendo conveniente per le banche tedesche prestare a italiani e spagnoli. La conseguenza è stato un incremento del debito privato dei Paesi del Sud. Nel periodo 99-2007, il debito privato è cresciuto di 98 punti di Pil in Spagna, del 52% in Grecia, del 53% in Portogallo e del 31% in Italia.
In teoria il capitale, andando dove è più scarso e quindi più produttivo, sarebbe servito a finanziare investimenti e a ridurre il divario di competitività tra Nord e Sud Europa. Nella realtà, invece, l’enorme quantità di denaro è servita a finanziare consumi e importazioni, causando anche la crescita di bolle immobiliari come in Spagna e in Irlanda. Inoltre, il denaro a basso costo ha consentito alle imprese meno efficienti di sopravvivere o di entrare sul mercato a scapito delle imprese più competitive, trascinando verso il basso la produttività aggregata. La concorrenza si è basata essenzialmente sulla riduzione dei costi, primo fra tutti quello del lavoro.
IL MERCATO DEL LAVORO
Last but not least, le riforme del mercato del lavoro. A partire dal ’97 con il Pacchetto Treu, l’Italia ha seguito alla lettera le indicazioni degli organismi internazionali sulla necessità di rendere il mercato del lavoro più flessibile, sulla base della convinzione che maggiori tutele per i lavoratori riducano il potenziale di crescita dell’economia. Sembra, però, che rendere il lavoro precario danneggi la produttività del lavoro. Ad esempio Robert Gordon (The role of labor market changes in the slowdown of european productivity growth, 2008) sostiene che il calo relativo della produttività in Europa rispetto agli Stati Uniti sia stato causato dalle riforme del mercato del lavoro. La flessibilizzazione, abbassando il costo del lavoro, avrebbe spinto le imprese ad adottare metodi di produzione ad alta intensità di manodopera. Insomma, l’abbondanza di lavoro a basso prezzo ha reso poco conveniente per le imprese investire in innovazione. Stessa conclusione si rinviene in un altro studio di Daveri (Temporary workers and seasoned managers as causes of low productivity, 2010): “L’abbondanza di lavoro a buon mercato derivante da queste riforme monche (pacchetto Treu) (…) potrebbe aver scoraggiato la capacità innovativa di molti imprenditori, che sono stati posto a confronto con la tentazione di adottare tecniche che usassero in modo intensivo i lavoratori part-time, la cui disponibilità sul mercato del lavoro era aumentata”.
LE RAGIONI DEL DECLINO
Insomma, sembra che il processo di integrazione monetaria da Maastricht in poi abbia avuto come effetto collaterale, per l’operare di vari fattori, lo schiacciamento del tasso di crescita della produttività del lavoro. Politiche pubbliche miopi di contrazione della spesa, dettate dal vincolo esterno europeo, l’aggancio valutario all’Ecu prima e all’euro poi, la cattiva allocazione dei capitali determinata dai bassi tassi di interesse in seguito all’ingresso nella moneta unica, e, infine, le riforme del mercato del lavoro, hanno concorso a stritolare la capacità di sviluppo di lungo periodo dell’Italia.