Globalizzazione: la migliore amica dell’uomo o del virus?

Nel 1348, un’altra pandemia ha sconvolto l’Eurasia: la peste nera. Lo abbiamo studiato tutti sui banchi di scuola: il bacillo della yersinia pestis, trasportato da pulci e topi, si è diffuso dall’estremo oriente all’Europa, falciando un terzo della popolazione. Questa malattia ha impiegato decenni per diffondersi, mentre il Covid-19, in poche settimane, è arrivato ai quattro angoli del pianeta. “È la globalizzazione”, si sente dire in questi giorni: il ritmo frenetico degli scambi e dello spostamento di beni e persone ha inevitabilmente accelerato il contagio. Anche nel ‘300 l’epidemia si era espansa proprio durante quella che può essere definita la prima globalizzazione della storia: era nata una fitta rete commerciale che collegava l’impero mongolo degli Yuan, attraverso l’Asia centrale, ai grandi scali mediterranei.

Il ruolo giocato dalla globalizzazione è quindi esclusivamente negativo?

Secondo alcune scuole di pensiero è stata particolarmente dannosa, e non solo perché ha reso più agevole la mobilità. Giulio Tremonti, ex ministro dell’Economia, in un’intervista al Corriere della Sera, sostiene che la crescita della Cina negli scorsi decenni è stata troppo rapida, una forzatura che ha creato grandi squilibri. Il coronavirus, in quest’ottica, è una forte cesura che potrebbe provocare un cambio radicale nel paradigma finora positivo.

Nei Paesi colpiti dal virus, numerose attività si sono dovute fermare, in parte perché molti lavoratori si sono ammalati, ma soprattutto a causa delle misure di contenimento. Questi stop avranno delle ripercussioni sul piano dell’offerta: potrebbe essere danneggiata gravemente quella filiera produttiva che vedeva partire dall’Oriente una serie di materie prime e semilavorati destinati all’industria italiana.

Proprio in cinese però, l’ideogramma che rappresenta il termine “crisi”, ha anche il significato di “opportunità”. Il processo di globalizzazione si trova a un punto di svolta: è questo il momento giusto per decidere quale direzione fargli prendere.

Sicuramente occorrono più strategie comuni per affrontare le difficoltà, ma anche regole e tutele che sostengano tutti quegli strati sociali che rischiano di essere travolti dalla mondializzazione dell’economia. È necessario anche un approccio più responsabile nei confronti dell’ambiente, nell’interesse prima di tutto dell’uomo. Secondo buona parte della comunità scientifica, l’epidemia di ebola che ha devastato l’Africa è stata provocata dalla vicinanza con i pipistrelli. Questi mammiferi però si sono avvicinati alle città perché il loro habitat è stato distrutto dalla frammentazione delle foreste: spesso l’essere umano è il primo responsabile delle calamità che lo toccano.

Sono quindi indispensabili una serie di cambiamenti nell’organizzazione dell’economia globale, anche perché l’alternativa è la chiusura protezionistica.

Il ritorno all’autarchia però non conviene a nessuno, men che meno all’Italia, che durante questa epidemia ha dimostrato di essere dipendente dall’estero anche per la produzione di macchinari salvavita. Restando nel campo sanitario, la globalizzazione favorisce poi la condivisione di scoperte e ricerche scientifiche, che possono essere rapidamente diffuse a beneficio di tutti.

La globalizzazione, insomma, non è buona né cattiva. È un fenomeno: l’uomo può scegliere se lasciarlo a sé stesso oppure controllarlo per valorizzare i risvolti positivi e contenere gli aspetti dannosi.

La storia ci insegna che tutte le epidemie, prima o poi, si esauriscono. Passata la burrasca, sarà nostra responsabilità correggere la rotta per ritrovare la direzione giusta.

 

Eleonora Fraschini

Giornalista pubblicista e praticante, appassionata di fotografia, politica e ambiente. Nata sulle sponde del lago ma milanese nel cuore.

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