Che l’attuale configurazione dell’eurozona sia insostenibile, e destinata a crollare come un castello di carte allo scoppio della prossima crisi, è ammesso anche dal gotha dell’ortodossia economica che si è riunito ieri a Berlino. Quattordici economisti francesi e tedeschi, tra i quali il consigliere di Macron durante la campagna elettorale, Jean Pisani Ferry, hanno steso un progetto di riforma per l’Unione economico monetaria per frenare «la crescita del populismo anti-euro». Secondo i decani presenti a Berlino, l’eurozona è «finanziariamente vulnerabile». Inoltre manca «delle condizioni istituzionali adeguate ad assicurare la prosperità nel lungo periodo» ed è «probabile una crescita inferiore al potenziale».
Per alleviare queste tensioni, il panel franco-tedesco ha elaborato un documento (Reconciling risk sharing with market discipline: a constructive approach to Euro area reform) nel quale sono indicate le linee guida da adottare per rendere sostenibile la moneta unica. Il progetto parte dall’assunto che lo stallo nel processo di integrazione sia dovuto alla divergenza di vedute tra la Germania, più attenta al rispetto delle regole, e la Francia, da sempre orientata verso un modello flessibile che garantisca crescita e occupazione. La sintesi proposta è quindi la soluzione migliore possibile, dal momento che tiene conto solo di pareri tecnici evitando le sabbie mobili della politica.
Le aree di intervento sono tre: il sistema bancario, le regole fiscali e la sorveglianza dei conti pubblici. Quanto al primo, si prevede un’assicurazione comune sui depositi, che interverrebbe però solo dopo che lo Stato membro abbia ripianato le “prime perdite”. Poi regole per limitare l’acquisto del debito pubblico da parte delle banche nazionali. Una soluzione che non farebbe che aumentare la pressione sul nostro Paese, gravato da un debito di oltre il 130% del Pil. Se i mercati iniziano a vendere i titoli italiani, come nel 2011, l’Italia si troverebbe infatti senza la copertura fornita dalle banche nazionali, rendendo più probabile il rischio di default. Ed è proprio qui che si innesta un altro punto del piano: predisporre una cornice normativa che regoli il fallimento di uno Stato membro. Il testo prevede infatti che il Fondo Salva-Stati (Esm) non possa concedere prestiti a governi insolventi, come invece avvenuto con la crisi greca. Una sorta di procedura fallimentare automatica. Per quanto riguarda le regole fiscali, oltre al sempreverde guardiano dei conti pubblici, l’unica nota di rilievo è l’abolizione del tetto del 3% del deficit, sostituito da un limite alla crescita della spesa pubblica che non potrà superare quella del Pil. L’incremento della spesa sarà inoltre vincolata per i Paesi con un debito pubblico superiore al 60% del Pil, la cui riduzione diventa l’unico parametro da conseguire nel medio-lungo periodo.
Insomma l’austerità sarà ancora un brand europeo. Infine si ritiene necessaria un’assicurazione europea sulla disoccupazione, che però non deve essere un «trasferimento permanente di risorse, ma solo temporaneo». Il fondo comune, col compito di erogare gli assegni di disoccupazione, sarà finanziato ogni anno con lo 0.1% del Pil di ogni Stato dell’eurozona. Una somma irrisoria. Inoltre i Paesi con più disoccupati contribuiranno in misura maggiore rispetto agli altri. Quindi l’Italia, con l’11% di disoccupazione, potrebbe essere costretta a finanziare il fondo nella stessa misura della Germania, dove i senza lavoro sono il 3.6%. Per evitare una parvenza di unione fiscale, vista come fumo negli occhi dall’elettorato tedesco, i pagamenti del fondo sarebbero una tantum e scatterebbero solo al superamento di una certa soglia del tasso di disoccupazione.