Ogni promessa è debito pubblico. In tempo di campagna elettorale, tutte le parti politiche in gioco annunciano riduzioni di tasse nel tentativo di imbonirsi gli elettori. Ma è come sparare a un bersaglio lontano inglobato in un enorme pagliaio con della gente che vi passa dietro: la mossa potrebbe fare centro, ma il rischio di mancare il tiro è molto alto, e qualcuno potrebbe restare ferito. Il pagliaio è il debito pubblico italiano, che negli ultimi anni è cresciuto vertiginosamente sino a toccare i 2.300 miliardi di euro, pari al 133% del Prodotto interno lordo del Paese. Cifre che ci regalano un poco confortante secondo posto nella classifica mondiale, dietro al Giappone. La Spagna sfiora il 100%, mentre la Germania è al 68%.
Il problema dell’Italia è che quel grosso pagliaio, oltre a ergersi come barriera, ha un costo di manutenzione che non ci possiamo permettere: la spesa per gli interessi sul debito pubblico è di 80 miliardi di euro annui. E qui entra in gioco la bilancia economica dello Stato. Eccetto il 2009, negli ultimi vent’anni l’Italia ha sempre registrato un segno più nella casella del saldo primario, cioè la differenza tra le entrate fiscali e la spesa pubblica tolti gli interessi. Nel momento in cui viene aggiunto il carico di questi ultimi, i conti si sballano e il Paese entra in deficit, alzando ogni anno il livello del debito pubblico. Per sostenere una spesa sempre più grande, che quest’anno ha raggiunto gli 830 miliardi di euro, i governi cercano di pareggiarla con le entrate, aumentando le tasse, adesso al 43%. In questo modo, però, l’economia reale ne risente: per star dietro al fisco, le aziende bloccano gli investimenti e le famiglie riducono i consumi. Così la crescita del Pil si arresta e il debito si ingrossa. Di conseguenza crescono gli interessi e le tasse devono aumentare nuovamente.
Un circolo vizioso. Secondo molti economisti, per uscirne bisogna modificare l’obiettivo degli sforzi: non una riduzione delle tasse, che provocherebbe un buco in entrata insostenibile con una spesa così alta, ma una decisa ristrutturazione della spesa. Due sono le strade percorribili: da un lato attaccare direttamente il pagliaio del debito, e quindi abbassare gli interessi, dall’altro lato abbattere la spesa improduttiva in favore di quella produttiva. La prima via presuppone la vendita di immobili statali e la privatizzazione delle società pubbliche e delle famigerate partecipate. In questo modo, si troverebbero i soldi necessari a un taglio secco del debito pubblico, e di conseguenza degli interessi annui che dobbiamo pagare. Una mossa che migliorerebbe la nostra posizione sui mercati finanziari, favorendo una riduzione dei tassi e quindi del costo del debito. Inoltre, scesi gli interessi, si aprirebbe uno spiraglio nel bilancio dello Stato per abbassare le tasse, in modo da far ripartire i consumi e la produttività. Si innescherebbe in questo modo un spirale positiva che, senza scassare i conti e senza passare da anni di deficit, riporterebbe l’Italia sui binari di una crescita economica in linea con gli altri Paesi europei.
Tutti i bravi amministratori sanno che ciò che conta è la composizione della spesa, più che la quantità assoluta. Andare a sfrondare i rami improduttivi e alimentare quelli produttivi è la seconda via indicata dagli esperti per uscire dalla morsa tra debito pubblico e pressione fiscale. Seguendo l’esempio del Belgio, che prima della crisi del 2008 aveva ridotto il suo debito dal 130% all’84% in 14 anni, le voci improduttive da colpire sono principalmente difesa e pubblica amministrazione. Per abbassare la spesa di quest’ultima, efficienza e digitalizzazione sono i fari da seguire: bisogna trasferire alcuni compiti della Pa ai privati e operare una massiccia trasformazione digitale di tutti gli uffici pubblici. Questi tagli selettivi alla spesa permetterebbero poi una riduzione della pressione fiscale, facendo partire, anche qui, una spirale positiva.
La spesa, dunque, dovrebbe essere il primo punto dibattuto nei prossimi mesi di campagna elettorale. Perché, parafrasando Cicerone, prima sopravvivere, poi detassare.