Tra chi la definisce la nuova frontiera della sharing economy e chi la accusa di trasformare le città in merce per turisti, la piattaforma di affitti brevi Airbnb profilica e si espande: a Milano, come nel resto d’Italia, in un far west di norme, opinioni contrastanti e numeri che non tornano.
Ma quanti sono? I numeri di Milano e Lombardia
«Al primo gennaio 2019 a Milano erano presenti sulla Piattaforma Airbnb 18.400 annunci, divisi tra appartamenti interi e stanze singole. Una vasta offerta di case vacanze, bed & breakfast, residence e boutique hotel, messi a disposizione da privati oppure da professionisti» dichiara l’ufficio stampa della piattaforma americana di Affitti brevi. Un numero clamorosamente smentito sia dal portale Ondata, a cui nel 2018 risultano 3.183 strutture Airbnb, sia da Federalberghi (sezione Milano, Lodi, Monza e Brianza), dal momento che a detta del suo presidente Maurizio Naro: «Nella città di Milano e provincia a marzo 2019 risultavano censite circa 2.500 case vacanze, tra imprenditoriali e non, e proprio queste ultime sono soprattutto appartamenti Airbnb. Un numero che rappresenta solo il 20% delle inserzioni presenti sul portale» .
Allargandoci a tutta la Lombardia, sempre per le rilevazioni fatte da Federalberghi, ad agosto 2018 nella piattaforma Airbnb erano presenti 40.494 annunci, ma nello stesso periodo alla Regione – in particolare al sistema per la rivelazione dei flussi turistici Turismo 5, risultavano registrate soltanto 11.017 case vacanza. Basta una semplice sottrazione per rilevare che all’appello mancherebbero 29.447 alloggi.
Tassazione e regole
Ma le incongruenze riguardano anche gli aspetti contributivi e fiscali. Dal 2017 per tutti gli appartamenti utilizzati come affitti brevi, che si tratti di case di proprietà o altrui, è prevista la cedolare secca, che prevede il pagamento del 21 per cento sui guadagni annuali. Per ora sono i singoli proprietari a dichiarare quanto guadagnano e a pagare le tasse, quindi potrebbero dire il vero, come il falso. E secondo quanto dichiarato dal presidente Naro la maggior parte, almeno in suolo lombardo, sembrerebbe protendere per la seconda opzione: «ll sommerso è ancora tanto, l’amministrazione di Milano nel 2018 ha incassato 48 milioni in tasse di soggiorno, ma di questo totale soltanto 3 milioni provengono dalle strutture Airbnb» .
Eppure, in Lombardia, le regole da rispettare sono state scritte nero su bianco: dal primo novembre 2018 nella regione, che in questo senso è stata apripista in Italia, per host e proprietari di alloggi è diventato obbligatorio farsi rilasciare il codice identificativo di riferimento (Cir), che va inserito in tutti gli annunci pubblicitari e che testimonia la completezza dell’iter legislativo compiuto dal proprietario. Registrazione in Comune e denuncia degli ospiti alla Polizia compresi. «Oltre alla volontà dei proprietari anche la piattaforma non collabora: la società Airbnb infatti non ha previsto nel suo portale un campo dove inserire il Cir e di fatto permette agli host di pubblicizzare i loro appartamenti, senza essere in regola – dichiara Naro -. In questo senso stiamo spingendo affinché le amministrazioni obblighino Airbnb a farlo. All’estero la situazione è diversa: la Catalogna ha obbligato Airbnb a cancellare dal suo portale tutte quelle inserzioni che non riportavano il codice identificativo di riferimento, questo anche perché l’amministrazione ha costituito una task force di 60 persone che monitora continuamente alberghi e case vacanze. Da noi invece non c’è nessuno: il primo vero problema rimane infatti la mancanza di controllo» .
Concentrazione e trasformazione
Ma veniamo ai problemi sociali: Airbnb è divisiva. Da un lato infatti la piattaforma americana è accusata di fagocitare le città, in particolar modo i suoi centri storici, espropriando i residenti e provocando il rincaro dei prezzi per vendite e affitti; dall’altro, per un’altra consistente parte di cittadini, Airbnb rappresenta una fonte di sostentamento non indifferente: un mestiere fai-da-te facile e molto conveniente per chi possiede una casa o una stanza in una zona turistica.
«Agli albori lo spirito degli ideatori di Airbnb era quello di decongestionare il centro delle città dal turismo di massa – spiega dall’università di Genova il ricercatore e sociologo di fenomeni politici Luca Raffini – ma negli anni ci siamo accorti che questa promessa è stata disattesa: le strutture Airbnb tendono infatti a concentrarsi sempre più nei centri e questo genera un conflitto con gli abitanti, che si sentono espulsi dalla propria città o dal proprio quartiere. È infatti inevitabile che la presenza capillare di Airbnb generi la “turistificazione” degli spazi: tipi di attività che cambiano e diventano a uso e consumo dei visitatori piuttosto che dei residenti, interi condomini che si trasformano in alberghi, quartieri che mutano, e così via» .
A dar ragione all’opinione di Raffini è la fotografia scattata dal sito InsideAirbnb sulla città di Milano, nella cui mappa tra puntini rossi (interi alloggi), verdi (stanze private) o blu (stanze condivise) si vede chiaramente che la massima concentrazione di strutture si addensa proprio nel centro della città.
Sempre sullo stesso sito, che misura l’impatto degli affitti brevi a livello mondiale, si legge che sul totale delle strutture Airbnb presenti a Milano il 72.5% sono case o appartamenti interi, il 25.5% camere private e il 2% camere condivise. Dati che testimoniano come la piattaforma dalla sua nascita, il 2007, a oggi abbia completamente cambiato la sua natura. Se inizialmente infatti i proprietari mettevano a disposizione dei turisti una stanza dell’ appartamento in cui abitavano, adesso è diventato sempre più comune pubblicare annunci su interi alloggi: case di proprietà non utilizzate che prima venivano affittate a studenti e famiglie e che adesso sono messe a disposizione dei turisti.
Qualche proposta
«La piattaforma Airbnb dà la possibilità ai cittadini di ricavare profitto dall’arrivo dei turisti – continua Raffini – Ma, al momento, sono sempre più i grandi investitori a fare enormi guadagni. Bisogna distinguere tra questi due tipi di pratiche e regolamentare» . Da un punto di vista normativo, anche il presidente Naro di Federalberghi, che da anni è impegnata nella battaglia per denunciare il sommerso nel settore turistico della piattaforma Airbnb, dice la sua: «La soluzione è incrociare i dati. Basterebbe che alcuni addetti ai lavori con in mano una lista delle strutture censite, quindi i codici Cir, passassero in rassegna gli annunci sul portale e multassero quelle attività che non sono in regola. Altrimenti al momento la concorrenza è sleale» .