La mattina del 14 luglio è morto Eugenio Scalfari. Il fondatore del settimanale L’Espresso e di Repubblica aveva 98 anni. Giornalista, scrittore, politico e tanto altro, Scalfari era considerato come una delle firme più prestigiose dell’intero panorama giornalistico italiano.
Nato a Civitavecchia il 6 aprile del 1924, per via del lavoro del padre fu costretto a trasferirsi a Sanremo con tutta la famiglia. Diplomatosi al liceo classico Cassini, di Sanremo, Scalfari ebbe come compagno di banco Italo Calvino. Fu proprio il celebre scrittore ad avvicinarlo al mondo del giornalismo. I due riuscirono subito a contraddistinguersi, facendosi notare dal pubblico grazie a testi elaborati pieni di emozioni. A dividerli furono poi le diverse scelte fatte riguardo al regime fascista. Trasferitosi a Roma, fino al 1942 scrive per Roma Fascista, periodico del GUF (Gruppo Universitario Fascista), fino a diventarne caporedattore. L’anno successivo però lanciò accuse verso gerarchi del Partito Nazionale Fascista sulla costruzione dell’EUR (quartiere di Roma), queste critiche gli valsero l’espulsione dal GUF.
Dalle collaborazioni con Benedetti e Pannunzio alla fondazione de L’Espresso e Repubblica
Una volta terminata la guerra si laurea in giurisprudenza. In seguito, nel 1947, inizia a collaborare con due dei settimanali più prestigiosi dell’epoca: Il Mondo di Mario Pannunzio e L’Europeo diretto da Arrigo Benedetti. Nel 1954 sposa Simonetta De Benedetti, la figlia dell’allora direttore del quotidiano La Stampa Giulio De Benedetti. I due avranno due figli e staranno insieme fino al 2006, anno della morte di Simonetta. Attualmente era sposato con Serena Rossetti, al quale si era legato già da tempo durante il suo primo matrimonio. A entrambe dedicherà il romanzo L’autunno della Repubblica: «Questo libro è dedicato a due persone. Una m’ha insegnato a non farmi corrompere dal potere, l’altra a non disperare della rivoluzione».
Nel 1955, assieme al sopracitato Benedetti, fonda L’Espresso: primo settimanale italiano d’inchiesta. Scalfari inizialmente lavora nella doppia veste di direttore amministrativo e collaboratore per l’economia e poi, quando Benedetti gli lascia l’intera guida nel ’62, diventa il primo direttore-manager italiano. Questa figura fu, per l’epoca, assolutamente inedita nel giornalismo italiano e fu poi riproposta anche a Repubblica. Eletto deputato per il PSI (Partito Socialista Italiano) nel 1968 abbandona la direzione dell’Espresso, ma conserva l’incarico amministrativo. Rimarrà alla Camera per una sola legislatura, fino al 1972.
Nel 1976 Scalfari fonda il quotidiano La Repubblica, assieme al sostegno economico del Gruppo L’Espresso e la Arnoldo Mondadori Editore. Il nuovo giornale debutta in edicola mercoledì 14 gennaio 1976, presentandosi al pubblico con un formato più piccolo rispetto a quelli tradizionali: un formato berlinese, da sei colonne al posto delle classiche nove. L’obiettivo iniziale di Repubblica era quello di essere un giornale di approfondimento, per un pubblico che voglia entrare nel dettaglio dei fatti del giorno che, magari, ha già letto altrove.
Nei primi anni di vita si ritaglia una buona fetta di pubblico nella sinistra extraparlamentare e quella riformista. Il punto di forza del quotidiano sono i commenti, sempre incisivi e schierati: anche le cronache hanno un taglio politico. La svolta arriva nel 1978 con il rapimento di Aldo Moro. Il quotidiano di Scalfari appoggia la linea della fermezza contro le richieste dei brigatisti e critica la scelta di trattare fatta dal PSI di Bettino Craxi. Nel 1981 con lo scandalo della loggia massonica P2, arriverà a pareggiare, e per un qualche anno superare, anche le vendite del Corriere della Sera. Nell’aprile 1996, Scalfari passa il comando della direzione a Ezio Mauro, ma rimarrà all’interno di Repubblica nelle vesti di editorialista.
Eugenio Scalfari ha inventato un nuovo modo di fare giornalismo: schietto, diretto. Un giornalismo capace di arrivare alla pancia del lettore indipendentemente che si parli di economia o politica. Tutto ciò senza la paura di schierarsi in modo netto quando era ritenuto doveroso e opportuno.
A chi gli domandava quanto avesse contribuito a cambiare il paese, Scalfari rispondeva:
«Io non volevo cambiare l’Italia ma il giornalismo sì. E questa mi pare un’impresa riuscita».