Da molti punti di vista, Mario Bava va considerato come una figura singolarmente fortunata. La maniera in cui, nell’ambito di una vasta rivalutazione del cinema di genere, gruppi di fan ne hanno onorato la memoria è, immaginiamo, esattamente quella che il regista ligure di nascita (ma romano di spirito), avrebbe scelto per sé. E accontentarlo non sarebbe stato facile, tanto insoddisfatto del proprio lavoro quale è stato, quanto “costretto” al ghetto dell’horror (che per altro gli ha dato maggior fama).
Eccolo lì, l’ignobile. Il genere di film che mio padre ha relegato nel mobile a sinistra della mansarda, tra la videocassetta di Sette note in nero di Lucio Fulci e Tenebre di Dario Argento. Per lui, cresciuto con i primi splatter di Cronenberg, nessun altro italiano ha meritato negli anni quella postazione privilegiata (forse è per questo che, con il tempo, l’ha riempita con la saga degli Xmen). Sono certa che la grande produzione italiana, lungi dall’affidarsi al gusto cinematografico di un ex cinefilo con la passione per La mosca, utilizzi criteri diversi. Eppure, nulla di simile ha più monopolizzato il programma dei nostri multisala. Fino ad ora.
Il 1 gennaio arriva al cinema Suspiria diretto da Luca Guadagnino, remake del capolavoro di Dario Argento. Era il 1977 quando la pellicola venne presentata dalla critica come una pietra miliare nel suo genere, lo spartiacque con cui le generazioni successive avrebbero dovuto confrontarsi. Ora, durante quella che è stata considerata la nouvelle vague del cinema nostrano (merito soprattutto di registi talentuosi come Paolo Sorrentino, Matteo Garrone, Rohrwacher e Roberto Minervini), la rivisitazione totale operata da Guadagnino tenta ciò che, da tempo, consideravamo impossibile: riempire le sale con l’horror di un regista italiano (benché con un cast tutto internazionale).
Certo, dal box office della settimana del 25 dicembre emerge tutt’altra tendenza: con il trionfo de Il ritorno di Mary Poppins (che, in sette giorni, ha incassato 5.893.000 euro), seguito dal ritorno della coppia Boldi-De Sica in Amici come prima (che ha portato a casa 4.680.000 euro, raggiungendo il primo posto nel solo giorno di Natale). Qualcosa, un po’ distante e in apparenza imperscrutabile però, sta cambiando all’ombra delle classifiche. E Guadagnino, che aveva presentato il film durante Venezia 75, ne è il risultato.
Ma cosa è avvenuto prima, rendendo fertile il terreno per un simile esperimento? Quella da ripercorrere è una sorta di apologia del terrore, iniziata con Babadook nel 2014 e con The Witch di Robert Eggers del 2016, la storia di una famiglia di coloni puritani indicata, sin da subito, quale esempio di “horror elevato”. Gli fanno compagnia It follows di Robert Mitchell, in cui la solitudine adolescenziale prende corpo in un’entità minacciosa, e Get out di Jordan Peel, la cui vittoria per la miglior sceneggiatura originale agli Oscar 2018, ha consacrato il sottogenere. Insomma, film di paura, ma che più di fantasmi e possessioni trattano di problemi sociali. Al gruppo vanno aggiunti A quiet place di John Krasinski, Hereditary e The neon demon di Nicolas Winding Refn, emblema di una tendenza di cui anche il remake di Guadagnino si fa portavoce: la cura estetica dell’immagine.
E adesso è il caso di dirlo: c’era una volta Mario Bava, un formalista innamorato della tecnica, spesso interessato alle immagini più che alle storie. Come nel suo Sei donne per l’assassino (a cui si deve la figura “classica” del killer incappucciato e guantato), il regista sperimentava con il colore, dal rosso dei drappeggi dell’atelier di moda (teatro degli omicidi), alla tappezzeria delle pareti. I corpi che consegnava alla morte altri non erano che manichini, un moritat di fantocci che distraevano lo spettatore in virtù dei loro abiti da copertina, dei movimenti sullo sfondo. In una visione del mondo all’insegna dell’artificio e della celebrazione della fine.
Un’ipertrofia stilistica che, spesso, ha reso le protagoniste delle pellicole horror vere icone di stile. Basti pensare alla sottoveste dal taglio sartoriale della moglie del mostro di Frankestein, ai ricami degli abiti in stile vittoriano di Nicole Kidman in The Others o, ancora, a Mia Farrow in Rosemary’s baby di Roman Polanski, che tutto sembra tranne che la protagonista di un film sul satanismo. Per lo stesso Suspiria, la costumista Giulia Piersanti ha dichiarato di aver sfogliato «Sibylle», un magazine di moda anni ’70. Il risultato? Completi più adatti a un soirée che a un conclave di stregoneria. In un tripudio di velluti e tinte gotiche tale, che potrebbero essere stati disegnati da Alessandro Michele per Gucci (che dalle teste mozzate in passerella al book Pre-Fall 2018 Disturbia, scattato sui set principali dei film di Argento, è il designer horror per eccellenza).
Tra moda, compenetrazioni di stili e atmosfere rarefatte, quel cinema che risiedeva nel mobile a sinistra della mansarda sembra essere tornato. Dotato di un’attenzione estetica che innerva anche la sensibilità di Guadagnino da cui, a un primo sguardo, il mondo di Dario Argento fatto di urla, azione e una persistente ferocia figlia degli anni di piombo, sembra essere lontano anni luce: preferisce puntare su un’analisi approfondita delle dinamiche stregonesche, a scapito dell’aspetto più thriller dell’originale. Ma il sangue resta, eccome. Come il desiderio, si insinua, si espande e rompe gli argini sino a travolgere ogni cosa. A fiumi, analogico come nei film di Romero o di quell’horror tutto italiano di Fulci, Deodato e ovviamente Argento.
A ogni modo, anche se per conoscerne l’esito e l’accoglienza dovremo aspettare ancora qualche giorno, Suspiria si rivela un’opera tra le più ambiziose dell’ultimo cinema italiano.
Vi è un’unica certezza: finalmente, le streghe son tornate.