10 storie. 10 personaggi. Live magazine è lo spettacolo andato in scena ieri sera, per la prima volta in Italia, al Teatro Franco Parenti di Milano. Una serata per «celebrare la delicatezza» con giornalisti, scrittori, registi, fotografi, ognuno portatore di una storia.
Un nuovo spazio per vivere l’informazione e nuovo modo di raccontare per sostenere il giornalismo, in un’epoca in cui il mondo dell’editoria è in crisi. Live magazine non vuole però registrazioni, fotografie o video: il ricordo deve rimanere nel racconto e nella memoria di chi semplicemente era seduto in platea. Questo è il live, questo è Live magazine.
Una carrellata di storie apparentemente scollegate tra loro che parlano di mondo, vita, speranza e morte, ma anche di business, prigione e politica. Come quella di Pablo Tapia Leyton, un ragazzo cileno che racconta, visibilmente emozionato e con le mani tremolanti, l’esperienza che lo ha toccato più da vicino.
Nato nel 1982 a Santiago del Cile, nel bel mezzo della dittatura di Augusto Pinochet, appartiene «a quella generazione che è portatrice di un’eredità che non vorrei», dice, e legata alla figura di El Diablo, “Il Diavolo”: così veniva chiamato il dittatore cileno. A 18 anni scopre che il padre era un ex membro della squadra armata di estrema sinistra, che venne deportato in prigione per esser torturato.
Oggi chi racconta questa storia ha 37 anni, e come ricorda «da 29 non esiste più la dittatura in Cile». E mentre dietro di lui compaiono immagini e video dei recenti scontri nel Paese, con la voce rotta dal pianto disegna un quadro preoccupante: «Le forze dell’ordine torturano e uccidono oggi come allora», afferma, «il governo domina i mezzi di comunicazione e la sanità pubblica è inesistente. Il 70% dei cileni dopo 40 anni di lavoro ricevono in media 270 euro di pensione. La rivoluzione attuale», aggiunge, «non è altro che l’urlo di chi sa che non possono togliergli niente, perché ormai ci hanno rubato tutto».
Decisamente diversa, e dai toni più allegri, è la storia del fotografo Gabriele Galimberti che esordisce: «Mentre in Italia qualsiasi oggetto trovato in giardino è di proprietà statale, in Usa appartiene a chi ci abita». Non si parla di utensili romani o vasi cinesi, ma di scheletri di dinosauri. «Se ne trovano parecchi in Mongolia, Cina, Marocco», dice, «Un T-rex potrebbe valere anche qualche milione di dollari». Il business dei dinosauri riguarda ricercatori, restauratori e compratori, collezionisti disposti a pagare fior di quattrini per posizionare il teschio di pterodattilo nel proprio salotto.
Altrettanto divertente, e che fa riflettere, è il monologo della comica siciliana Teresa Mannino sullo spreco del cibo nei Paesi sviluppati. «Ci hanno inculcato la paura che la Torre di Pisa stesse per crollare, che i panda si stessero estinguendo e che fossero necessari gli Ogm (Organismi Genetici Modificati, ndr) per aumentare la produzione di cibo nel mondo. A distanza di anni, la torre di Pisa è ancora in piedi, i panda sono gli unici a non estinguersi. L’unica cosa realmente accaduta è che noi oggi produciamo molto più cibo», ha detto. Non solo, il 60% del cibo prodotto a livello mondiale viene buttato. «Chi moriva di fame continua a morire di fame, noi invece moriamo per troppo cibo o per cibo avvelenato. Se mangi troppa carne rischi l’accumulo di antibiotici, se mangi troppo pesce quello di metalli pesanti, se mangi troppa verdura quello di pesticidi. Forse per capire il valore del cibo», conclude, «dovremmo iniziare a produrlo per conto nostro».
È il turno poi di Riccardo Albini, l’inventore del fantacalcio, che parla di quanto il suo gioco abbia rivoluzionato i pomeriggi di molti uomini e, dice scherzando, «messo a rischio le relazioni tra fidanzati». La sua è la storia di chi inizialmente veniva deriso per un progetto «troppo da nerd per poi però accogliere il favore di molti» e diventare un vero e proprio rituale per quasi 6 milioni di italiani.
Calano le luci, è il momento di un ragazzo, incappucciato e con gli occhiali scuri. Il suo nome d’arte è The Andrè. «Ho deciso di buttare giù il vero Fabrizio De Andrè dal suo trono per trovare la mia strada», si presenta, «Gli ho messo in bocca parole non sue. Cosa sarebbe successo se a scrivere e a cantar canzoni trap fosse stato proprio lui?». E così, con una voce che sembra rievocare quella del grande cantautore genovese, The Andrè canta live i testi di Achille Lauro con toni e arrangiamenti identici a quelli di Fabrizio.
Il risultato del suo primo album è un curioso ibrido: un “doppio tradimento” verso la musica che lo ha formato e quella contemporanea. «Era possibile che così tanta gente fosse interessata ad ascoltare una buffonata del genere?» si chiede. Sì, evidentemente, era possibile.
E sempre sulle note di De Andrè, il rapper conclude: «La morale della mia storia è non dar troppo retta ai sogni di gloria. Alla fine se va o non va è un dettaglio, tutto quel che mi è uscito di buono l’ho fatto per sbaglio».
Poi cala il sipario, tra gli applausi del pubblico.