ELENA LIETTI, LA DURA LEGGE DEGLI ATTORI: «SIAMO ATLETI, GUAI FARSI TROVARE IMPREPARATI»

Fin da bambina aveva le idee chiare: «volevo fare l’avvocato o l’attrice». Dopo aver indossato la toga, l’incontro con Filippo Timi le ha rivelato la strada della recitazione… Non è però ancora riuscita a realizzare la sua massima aspirazione teatrale – interpretare Amanda de lo “Zoo di vetro” di Tennessee Williams.  Elena Lietti, che con disponibilità ha raccontato la sua carriera agli studenti del Master in Giornalismo IULM, è ormai un’attrice affermata. Nel passare dal lavoro sulle scene a quello con alcuni tra gli autori più importanti del cinema italiano, Elena ha interpretato personaggi intimamente diversi. È stata Emma Tassi ne “Il rosso e il blu” di Giuseppe Piccioni, ha avuto una parte ne “La pazza gioia” di Paolo Virzì, fino all’intenso ruolo di Sara in “Tre piani” di Nanni Moretti (in concorso a Cannes nel 2021). 

Di recente ha interpretato sullo schermo “L’Arminuta” di Giuseppe Bonito, tratto dal romanzo di Donatella Di Pietrantonio (Premio Campiello 2017). È anche stata protagonista di una delle serie italiane più anomale e disturbanti contemporanee: “Il miracolo” di Niccolò Ammaniti. Il suo amore per il cinema è viscerale, tanto che Elena ha confessato di sognare che un giorno le sue ceneri vengano sparse in sala. La naturalezza, estremamente rara, che riesce a imprimere ai suoi personaggi è frutto di grande allenamento. «Il lavoro dell’attore è come quello dell’atleta. Bisogna essere sempre pronti, preparati a costruire un’identità nuova», ha spiegato. «Il solo modo per riuscirci è distruggere le proprie difese e i propri preconcetti. Questo richiede un impegno costante a essere disponibili». Ognuno dei suoi personaggi ha un tratto distintivo che lo connota e lo racconta. Questo vale anche per la risata surreale della Elena di “Costellazioni”, la sua interpretazione teatrale più recente, andata in scena al Franco Parenti di Milano.

Com’è stato tornare sul palco dopo due anni di pandemia?

Davvero una grande emozione rivedere il pubblico. Questo dimostra che, quando ci sono racconti di qualità, la gente partecipa con interesse.

È appena stata in scena con “Costellazioni” di Nick Payne: qual è il tema più interessante dello spettacolo secondo lei?

Senza dubbio quello del tempo. Trovo commovente lo sforzo di una mente scientifica di combattere la mortalità per affermare la propria immortalità. Elena, la protagonista di “Costellazioni”, fa la cosmologa. La sua idea è scientificamente basata sulla teoria del tempo simmetrico, non visto nella sua estensione lineare, ma come qualcosa già totalmente a nostra disposizione.

Il personaggio di Elena è in continuo divenire, quanto è stato difficile interpretarlo?

C’è un lavoro consistente di analisi del testo, ma soprattutto c’è la ripetizione delle scene. Ripetere più volte ti fa entrare la partitura nel corpo, come se avesse una sua memoria e sapesse già come muoversi.

È la prima volta che condivide il palco con Pietro Micci? Come è stato possibile creare la sintonia fra voi?

Avevamo già lavorato insieme in un altro spettacolo teatrale. Anche lì eravamo marito e moglie, ma in una dinamica molto diversa, comunque utile per conoscerci e capire come lavorare insieme. 

Elena Lietti e Pietro Micci in Costellazioni di Nick Payne - Regia Raphael Tobia Vogel
Elena Lietti e Pietro Micci in Costellazioni di Nick Payne – Regia Raphael Tobia Vogel

Nel 2011 è stata sia interprete che autrice di “Posso uscire anche a mezzanotte”…

Quello spettacolo è stato un rito di iniziazione, un passaggio importante. Ho deciso di scrivere, produrre e dirigere lo spettacolo da sola. “Posso uscire anche a mezzanotte”, grazie anche al materiale preso in prestito da Franca Valeri e Giorgio Gaber, l’ho scritto in pochissimi giorni, era figlio di un’urgenza interiore.

È riuscita a incontrare Franca Valeri?

L’ho conosciuta in un’altra occasione, quando è venuta a vedere “Il Don Giovanni” nella versione di Filippo Timi. Eravamo tre donne in scena, e accompagnavamo Timi in quello che era un “one-man-show”. Franca Valeri si è presentata dietro le quinte e con una sola battuta ha saputo essere meravigliosa: «Filippo, hai delle straordinarie attrici al tuo fianco». Ci teneva a sottolineare l’importanza delle “spalle” femminili. 

Oltre al teatro, il cinema. Quali sono le principali differenze recitative?

Il cinema richiede disinvoltura davanti alla macchina da presa. Sul set devi sapere dov’è posta la macchina da presa e “servirla” per coinvolgere il pubblico. Sono tutti piccoli dettagli, particolari che impari solo con la pratica.

Ha interpretato Sara in “Tre piani”, come si è preparata per avere la parte da Nanni Moretti? 

Ho letto il libro di Eshkol Nevo. Nanni ha una visione molto precisa, quindi andare con troppi progetti e altre idee non sarebbe servito a nulla. Con Moretti bisogna lasciarsi guidare, è una persona estremamente umana e generosa nei rapporti. 

Come l’ha guidata nell’interpretare quel ruolo? 

Il lavoro innanzitutto si è basato sulla sceneggiatura. Poi avevo il romanzo di Nevo, che rispetto alla Sara voluta da Moretti ha funzionato più per differenze che per somiglianze: il personaggio pensato dallo scrittore israeliano, testualmente, “berrebbe il sangue del marito con una cannuccia”, Nanni mi ha detto di avere invece una visione molto civile della separazione. Allora ho capito cosa volesse raccontare: una donna che decide di stare accanto al marito nel percorso ingiusto che si trova ad affrontare. Al punto che Nevo mi ha detto di aver reso Ayelet (Sara nel film di Moretti ndr) una persona migliore…

Elena Lietti in Tre piani di Nanni Moretti
Elena Lietti in Tre piani di Nanni Moretti

Proprio nella conferenza stampa di presentazione del film, Moretti ha detto che la cosa più importante per fare cinema, oltre alla passione, è l’attenzione ai dettagli.

«Gold is in the details», dice sempre mio marito e maestro di recitazione americano (Michael Margotta, ndr). Quando hai cura dei dettagli la qualità del film è diversa. Ma questo presuppone tempo, non credo, infatti, sarei in grado di fare cinque film all’anno, proprio perché per interpretarli occorre prepararsi bene.

Tra i tanti ruoli, ha indicato Emma Tassi del film “Il rosso e il blu” come il personaggio che le sta più a cuore. Perché?

Emma Tassi è una professoressa di scienze in cortocircuito emotivo nei confronti di Riccardo Scamarcio, un prototipo di prof. che tanti della mia generazione hanno conosciuto. Del suo personaggio emergevano pochi aspetti nel corso del film, ma di lei potevamo immaginarci tutto: da dove vivesse al suo gatto, fino ai corsi di “latino americano” che faceva il venerdì sera con addosso vestiti improbabili. È quindi un personaggio buffo a cui ho voluto molto bene ed è stata la mia prima esperienza cinematografica di rilievo. 

Non solo Piccioni e Moretti, ma anche Paolo Virzì (“La pazza gioia” e “Siccità”) e Paolo Genovese (“Il primo giorno della mia vita”). Com’è lavorare con registi così diversi tra loro?

La prima esperienza con Virzì l’ho vissuta sul set de “La pazza gioia”. Pur interpretando una piccola parte, abbiamo lavorato tantissimo per dare credibilità al contesto della clinica psichiatrica di Villa Biondi. Virzì prova piacere a discutere con chi avanza proposte: è un ladro di intuizioni attoriali. Con Paolo Genovese, invece, ho avuto meno margine creativo, ma mi ha dato l’opportunità di vedere all’opera grandi professionisti come Valerio Mastrandrea, Toni Servillo e Margherita Buy. 

Che personaggio interpreta in “Le otto montagne” di Felix van Groeningen?

La madre del protagonista, Francesca. Il ruolo in realtà non ha richiesto una preparazione “fisica” particolare perché sono l’unico personaggio a non avere a che fare con la montagna estrema. Arriverò “solo” a 1700 metri di altitudine, che da lombarda non è un granché: essendo varesotta, del saronnese, sono abituata a frequentare la montagna fin da bambina, quando mio papà mi portava a sciare.

Anche “Le otto montagne” prende ispirazione da un romanzo. Come può un attore conciliare la trama del libro con la volontà del regista?

Penso che la “bibbia” per un attore sia sempre la sceneggiatura. Avere il romanzo è un plus, perché vai alla fonte della sceneggiatura e puoi arricchire il tuo personaggio. “Le otto montagne” di Paolo Cognetti, infatti, l’ho letto varie volte e mi ha aiutato davvero. Con la sceneggiatura vedi la punta dell’iceberg, grazie al libro invece hai la fortuna di vedere anche cosa sta sotto. 

Elena Lietti sul palco del Teatro Franco Parenti di Milano

Come lavora se non c’è un romanzo, pensa a una “bibbia” personale del personaggio o preferisce dialogare con il regista?

Con la sceneggiatura hai il materiale a disposizione per interpretare il tuo ruolo. Sarà poi l’occhio attento del regista a intervenire per modificare le scelte che non corrispondono alla sua volontà. 

Ha recitato anche in diverse serie tv. C’è qualche differenza quando si lavora nel minutaggio molto più lungo della serie?

Non c’è differenza nell’approcciare un personaggio tra teatro, film o serie. La cosa interessante nella serialità tv è che il range di un personaggio è più vasto, con maggiori possibilità di osservarlo in varie vesti e innamorarti di lui, sia come spettatore che come attore. 

Ne “Il Miracolo” interpreta Sole Pietromarchi, la moglie ricca e annoiata del premier Fabrizio Pietromarchi. Quanto c’è di lei in  questo personaggio?

Il personaggio è lontanissimo da me. Quando ho fatto il provino mi hanno detto «Elena devi essere stronza, devi arrivare e convincerci che sei stronza». E io mi sono detta «Ok oggi sono stronza». È stato uno dei provini più surreali della mia vita. In effetti, Sole Pietromarchi ha una cosa che non ho, non gliene frega niente di nulla. Così facendo mi sentivo nei suoi panni. Ho fumato una sigaretta, io che non fumo… Io e Sole non abbiamo molte cose in comune, però alla fine ci ho messo tanto di mio, certe idiosincrasie, una particolare ironia. La cosa da cui sono partita è stata la sua professione…

Quale professione?

Sole era la moglie di qualcuno di potere. Ma in passato aveva fatto la pilota di rally, aspetto che in realtà è centrale. I rallysti  vivono di adrenalina. Si trattava di una “tossicodipendente” con il bisogno di sentirsi viva e spingersi fino al limite, che guida a velocità tali da aver bisogno di un partner che le dica dove e quando girare il volante. Allo stesso modo, nel quotidiano Sole aveva bisogno di una squadra che le è mancata quando il marito è diventato primo ministro.

Una delle scene più memorabili de “Il Miracolo” è quella in cui una fila interminabile di caramelle usciva dalla sua bocca. Come l’avete girata? 

Quel giorno ho guardato il reparto effetti speciali e gli ho detto «mi sarei aspettata di più da voi ragazzi, mi avete deluso! (ride, ndr)». Ricordo che eravamo in questo meraviglioso ristorante in Via della Conciliazione a Roma e dopo aver creato un calco della mia bocca, mi hanno letteralmente infilato 36 caramelle che ho dovuto sputare una ad una!

La sua vita professionale era indirizzata verso l’avvocatura, ma poi ha cambiato idea. C’è un momento in particolare in cui ricorda di aver pensato: «voglio fare l’attrice»?

Probabilmente il merito è sempre stato di mia mamma che fin da piccola mi faceva vedere un sacco di film inappropriati. Poi la decisione di abbandonare completamente la strada giuridica l’ho presa guardando in scena Filippo Timi ne “La Vita Bestia”: è stato il suo modo di lavorare che mi ha pienamente convinto di voler vivere questa vita.

Anche l’avvocato come l’attore osserva e interpreta una parte in tribunale. C’è qualcosa che le è stato utile da quell’esperienza?

Uno pensa che la legge sia soprattutto un affare mnemonico, invece c’è molta logica… Anche nel mondo della recitazione, le sceneggiature e i personaggi sono equazioni, architetture che devono stare in piedi. Questo concetto l’ho sperimentato con il film “L’Arminuta” di Giuseppe Bonito. La protagonista è una bambina restituita al mittente dopo essere stata adottata dalla zia. Io interpreto proprio la zia che la restituisce; questo è stato un lavoro decisamente da avvocati, ho dovuto ricostruire il percorso umano che l’ha portata a capire che questa era la scelta giusta.

Dopo la pandemia il mondo dello spettacolo è stato messo ulteriormente in crisi. Quanto è importante che venga mantenuta la funzione collettiva delle sale?

È il cinema a essere veramente a rischio. Non penso sia lo stesso per il teatro, perché credo che lo spettacolo dal vivo sia insostituibile e la gente non smetterà mai di usufruirne. Il cinema invece è totalmente minacciato dalle piattaforme. Cito Nanni Moretti: «Io senza il cinema non ci so stare, ecco, punto». Io sono totalmente d’accordo. La sala buia, il grande schermo, la condivisione, le immagini che si sciupano mano a mano che si arriva in ultima fila, come diceva Bertolucci, un’esperienza unica…

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