<< Se devo fare un discorso di un’ora, ho bisogno di una settimana per prepararmi. Se devo parlare per mezz’ora, datemi qualche giorno. Per un discorso di cinque minuti, invece, c’è bisogno di scrivere per oltre una settimana >>. Winston Churchill
La storia è cosparsa di figure carismatiche che hanno contribuito a plasmare il mondo così come lo conosciamo oggi. Dall’alba dei tempi (narrati), il modo migliore per far sì che un personaggio politico venisse riconosciuto dalla gente è quello dell’arte oratoria, per imbastire discorsi e raccontare un’epica diversa dallo status quo, in grado di movimentare le masse e creare consenso.
Nel corso dei secoli si è assistito alla comparsa di diversi oratori: da Socrate a Gesù, da Napoleone Bonaparte a Winston Churchill, che proprio oggi, 86 anni fa, pronuncia il discorso (il primo di tre) che gli vale la fiducia alla Camera dei Comuni.
Ma la mitologia di Winston Churchill non sarebbe potuta esistere senza un altro discorso, tenuto dal Re d’Inghilterra Giorgio VI nel 1939, quando la Gran Bretagna entra in guerra contro la Germania. Esiste un film, il Discorso del Re, con protagonisti Colin Firth e Geoffrey Rush, in cui si ripercorrono le tappe che portarono alla dichiarazione di guerra. Una vera storia nella storia, data dal fatto che Re Giorgio VI soffre di balbuzie e quindi deve essere seguito da un logopedista specializzato (Geoffrey Rush, per l’appunto) che lo aiuterà a liberarsi dei problemi lessicali, regalando alla Storia un discorso memorabile, che aiutò il popolo inglese a calarsi negli anni più bui del Novecento.
I MONOLOGHI NEL CINEMA: WOODY ALLEN
<< Io e Annie abbiamo rotto… >> (link al video)
Identificabile come uno dei più brillanti e prolifici monologhisti della contemporaneità, Woody Allen ha saputo usare la commedia per scandagliare con ironia la società moderna. Nato il 1 Dicembre 1935 a Brooklyn da una modesta famiglia ebrea, è dal 1966 che non accenna a posare la macchina da presa. Gli occhiali dalla montatura spessa, la voce di Oreste Lionello (il suo storico doppiatore italiano) e una spassosa ipocondria sono alcuni degli elementi distintivi che hanno fissato l’attore e regista newyorkese nell’immaginario collettivo del suo pubblico, e non solo.
Bizzarria, ironia e divertimento: questa la ricetta dei primi film di Woody Allen, spesso parodie di altre pellicole già celebri.
Ma è alla fine degli anni 70 che arrivano i film della svolta. In Io ed Annie (Annie Hall), che racconta la relazione complicata di Alvy Singer, un attore comico ebreo (interpretato dallo stesso Allen), con Annie Hall (interpretata da Diane Keaton, con la quale Woody Allen avrà una relazione e che sarà protagonista dei suoi cinque film successivi), una ragazza conosciuta giocando a tennis con degli amici in comune.
Indipendentemente da quello che sarà l’esito della storia d’amore tra i due protagonisti, è interessante vedere come Woody Allen, già dalla prima scena, rompendo la quarta parete fa sentire lo spettatore parte del suo punto di vista, coinvolgendolo. Partendo da una barzelletta, con il suo monologo Allen tocca le più delicate tematiche umane, che sono quelle caratteristiche delle sue personali fobie, delle sue nevrosi, delle sue paure (il rapporto con le donne, la paura della morte, l’indipendenza sentimentale).
Insomma, il monologo iniziale di Annie Hall è indimenticabile proprio per la sua capacità di far sorridere e al contempo lasciare in bocca quel sapore dolce-amaro che solo l’insensatezza dell’esistenza può provocare.
E a proposito di vita e insensatezza, anche uno dei film più recenti di Woody Allen, Midnight in Paris, regala al pubblico un monologo di Ernest Hemingway sul fare l’amore per combattere la paura della morte, che vale la pena recuperare.
Senza dimenticare Manhattan, film del 1979 scritto diretto e interpretato dallo stesso Allen. Considerato vera e propria lettera d’amore del regista alla sua città, Manhattan è considerato “la sua prima critica sociale di un certo spessore contro la società moderna”: Allen fotografa le insicurezze di quella società scalmanata e insicura, senza negarsi il gusto di deriderla e mettendo in ridicolo i suoi protagonisti, ossessionati dal mostrarsi moderni e svincolati dalle dinamiche convenzionali in cui sono calati. È la giovanissima Tracy (interpretata da Mariel Hemingway), la diciassettenne con la quale il protagonista ha una relazione, a dimostrarsi la più libera, matura e posata.
Anche Manhattan regala al cinema un monologo indimenticabile per la purezza della sua spontaneità. Allen ha lasciato Tracy per Diane Keaton, che però lo lascerà a sua volta, dopo poco. Nella celebre scena del monologo (link al video) troviamo il protagonista steso sul divano intento a registrare, tipo flusso di coscienza, le cose per cui vale la pena vivere.
Monologhi sulla vita. Carpe Diem, rendete straordinaria la vostra vita
<< A me m’ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c’è una ragione. Perché proprio in quell’istante? Non si sa. Fran. Cos’è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C’ha un’anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un’ora, un minuto, un istante, è quello, fran. O lo sapevano già dall’inizio, i due, era già tutto combinato, guarda io mollo tutto tra sette anni, per me va bene, okay allora intesi per il 13 maggio, okay, verso le sei, facciamo sei meno un quarto, d’accordo, allora buonanotte, ‘notte. Sette anni dopo, 13 maggio, sei meno un quarto, fran.
Non si capisce. È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi che è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio. Quando, in mezzo all’Oceano, Novecento alzò lo sguardo dal piatto e mi disse: “A New York, fra tre giorni, io scenderò da questa nave”. Ci rimasi secco. Fran. >>
Quello che manca a Novecento, è il sentimento dell’urgenza.
Novecento non è solo il nome di un secolo, ma anche quello del protagonista del celeberrimo monologo teatrale di Alessandro Baricco, da cui nel 1998 è stato tratto il film La Leggenda del pianista sull’oceano, di Giuseppe Tornatore, in cui Novecento è interpretato dall’attore statunitense Tim Roth.
E su quelle cose per cui vale la pena vivere prova a far luce anche Robin Williams, nei panni del professore che probabilmente qualunque liceale avrebbe voluto avere: il Professor Keating de L’Attimo fuggente. Nel film del 1989 diretto da Peter Weir, il monologo rivolto alla sua giovane classe di ragazzi ha un’unica, accorata esortazione: rendete straordinaria la vostra vita.
Un’altra delle interpretazioni memorabili di Robin Williamns, condita da cardigan e barba folta, è quella di Sean Maguire in Will Hunting, Genio Ribelle. Il film è dedicato alla memoria dei poeti beat Allen Ginsberg e William Borroughs, scomparsi entrambi nel 1997. Gas Van Sant fu chiamato a dirigere una pellicola coraggiosa che poggia le sua fondamenta sulle difficoltà di essere una persona con delle capacità fuori dal normale: Will è un genio della matematica, ma non sa cosa vuole dalla sua vita. Sarà il rapporto con il professor Maguire (Robin Williams), a schiarirgli le idee e a far sì che raggiunga i suoi obiettivi. Williams interpreta un personaggio onesto, in lutto a causa della scomparsa dell’amata moglie, la cui perdita non ha ancora superato. Nei dialoghi con Will si concede una ridondanza di memoria personale, dove racconta alcuni aneddoti della vita di coppia e sprona Will a conquistare il suo futuro. Una delle frasi più belle è quando racconta di come:
<< Se ti chiedessi sull’arte probabilmente mi citeresti tutti i libri di arte mai scritti… Michelangelo. Sai tante cose su di lui: le sue opere, le aspirazioni politiche, lui e il Papa, le sue tendenze sessuali, tutto quanto vero? Ma scommetto che non sai dirmi che odore c’è nella Cappella Sistina. Non sei mai stato lì con la testa rivolta verso quel bellissimo soffitto… Mai visto. Se ti chiedessi sulle donne, probabilmente mi faresti un compendio sulle tue preferenze, potrai perfino aver scopato qualche volta… ma non sai dirmi che cosa si prova a risvegliarsi accanto a una donna e sentirsi veramente felici. Sei uno tosto. E se ti chiedessi sulla guerra probabilmente mi getteresti Shakespeare in faccia eh? “Ancora una volta sulla breccia, cari amici!”… ma non ne hai mai sfiorata una. Non hai mai tenuto in grembo la testa del tuo migliore amico vedendolo esalare l’ultimo respiro mentre con lo sguardo chiede aiuto. Se ti chiedessi sull’amore probabilmente mi diresti un sonetto. Ma guardando una donna non sei mai stato del tutto vulnerabile… non ne conosci una che ti risollevi con gli occhi, sentendo che Dio ha mandato un angelo sulla terra solo per te, per salvarti dagli abissi dell’Inferno. Non sai cosa si prova ad essere il suo angelo, avere tanto amore per lei, vicino a lei per sempre, in ogni circostanza, incluso il cancro. Non sai cosa si prova a dormire su una sedia d’ospedale per due mesi tenendole la mano, perché i dottori vedano nei tuoi occhi che il termine “orario delle visite” non si applica a te. Non sai cos’è la vera perdita, perché questa si verifica solo quando ami una cosa più di quanto ami te stesso: dubito che tu abbia mai osato amare qualcuno a tal punto. Io ti guardo, e non vedo un uomo intelligente, sicuro di sé, vedo un bulletto che si caga sotto dalla paura. Ma sei un genio, Will, chi lo nega questo. Nessuno può comprendere ciò che hai nel profondo. Ma tu hai la pretesa di sapere tutto di me perché hai visto un mio dipinto e hai fatto a pezzi la mia vita del cazzo. Sei orfano giusto? Credi che io riesca a inquadrare quanto sia stata difficile la tua vita, cosa provi, chi sei, perché ho letto Oliver Twist? Basta questo ad incasellarti? Personalmente, me ne strafrego di tutto questo, perché, sai una cosa, non c’è niente che possa imparare da te che non legga in qualche libro del cazzo. A meno che tu non voglia parlare di te. Di chi sei. Allora la cosa mi affascina. Ci sto. Ma tu non vuoi farlo… vero, campione? Sei terrorizzato da quello che diresti… A te la mossa, capo >>.
MONOLOGHI POLITICI: L’HOPE SPEACH DI HARVEY MILK
San Francisco, 1970. Il proprietario di un piccolo negozio di fotografia è insoddisfatto del trattamento riservato agli omosessuali e, in generale, ai diversi. Harvey Milk impiega poco a diventare punto di riferimento del suo quartiere, tanto da arrivare ad essere chiamato Sindaco di Castro Street.
Sostenuto non solo dalla comunità gay ma anche da giovani, famiglie e coppie eterosessuali, Harvey Milk decide di candidarsi. Perderà le elezioni tre volte, ma ogni volta ricevendo sempre più supporto, in contrasto a quella che era la fortissima opposizione della comunità cattolica (bigotta e conservatrice).
Intanto il quartiere di Castro cresce e diventa il paradiso degli omosessuali, molti arrivavano da lontano. Milk non demorde, anzi, incoraggiato da quest’onda di positività e fiducia decide di concorrere nuovamente per la carica di consigliere comunale. Conduce così una campagna di successo e nel 1977 vince un seggio al consiglio di supervisori di San Francisco.
Milk continua a lottare contro persone come la cantante e attivista statunitense Anita Bryant, nota soprattutto per le sue prese di posizione contro l’omosessualità e protagonista di campagne politiche per impedire la parità di diritti ai gay. Soprattutto Milk lotta contro il senatore dello stato della California John Briggs, sostenitore della Proposition 6, una legge che cercava di vietare ad insegnanti gay e lesbiche di insegnare nelle scuole pubbliche.
Viene assassinato il 27 novembre 1978 all’interno del Municipio, insieme al sindaco George Moscone, dall’ex consigliere comunale Dan White. Consapevole del rischio che correva, dopo avere ricevuto numerose lettere e telefonate di minaccia, aveva registrato numerose audiocassette da ascoltare se mai gli fosse successo qualcosa.
Il film del 2008 a lui dedicato, Milk, diretto da Gus Van Sant, vede il premio oscar Sean Penn, che interpreta Harvey Milk, recitare il celebre Hope Speach (Discorso sulla speranza), che sprona ad avere coraggio durante il periodo di omofobia, aggressioni e diritti negati che la comunità gay stava attraversando.
MONOLOGHI POLITICI: MARTIN LUTHER KING
Esistono persone che sanciscono un prima e un dopo. Martin Luther King è sicuramente una di queste: nell’immaginario collettivo, una frase su tutte di King è stata tramandata fino a noi: << I have a dream >>. Simbolica, permeante, è stata pronunciata nel 1963 davanti al Lincon Memorial di Washington, durante una marcia per i diritti civili della popolazione americana di colore. King era solito parlare di sogni, usando esattamente questo termine: con una citazione forse involontaria a John Donne – che aprì una delle sue ballads di fine settecento con un altro verso iconico, << Go and catch a falling star >>.
King è sempre stato convinto del potere assoluto della determinazione: durante un altro dei suoi discorsi iconici, ha affermato che: << potrebbe benissimo essere che questo negro sia lo strumento di Dio per salvare l’anima dell’America >>.
Nel singolo il tutto, nel collettivo la risposta. Questo era Martin Luther King, forse non l’eroe che ci meritiamo, ma quello di cui il Novecento aveva bisogno.
MONOLOGHI POLITICI: BARACK OBAMA
Del Gennaio 2017 si ricordano distintamente due date: il 10 e 20. Il 20 per l’insediamento dell’ex presidente USA Donald Trump alla Casa Bianca; Il 10 per il bellissimo, seppur triste , discorso dell’ex presidente Barack Obama.
ANCORA CINEMA: MONOLOGHI SPORTIVI
Lo sport ha rappresentato spesso un terreno naturale per lo sviluppo di storie.
Il cinema ha regalato momenti trascinanti nel riprendere certe vicende sportive, narrazioni cariche di pathos e di una valenza simbolica e morale che trascende lo sport in sé e si regala alla vita di tutti i giorni.
Due pellicole che, a loro modo, hanno tracciato una strada di questa narrazione: Ogni Maledetta Domenica e Glory Road. Entrambi film americani, Ogni Maledetta Domenica si basa sul carisma di Al Pacino, qui nei panni di un vecchio allenatore di football alle prese con una stagione complicata. Il suo discorso nello spogliatoio prima della partita decisiva è rimasto nel cuore degli appassionati di cinema e sport per il modo in cui si capisce che << la vita è un gioco di centimetri. E la differenza tra la vittoria e la sconfitta è quanto sei disposto a combattere per quei centimetri >>.
Glory Road è un film che racconta una storia vera.
È il 1965 quando Don Haskins si siede per la prima volta sulla panchina dei Texas Western Miners, una squadra di college che versa in cattive acque finanziarie. Haskins, interpretato da Josh Lucas, investe di tasca propria per reclutare i giocatori e forma una squadra di cinque giocatori bianchi e sette afro-americani. La specifica è necessaria perché se si pone attenzione all’anno in cui inizia questa storia, ci si accorge della presenza di un cortocircuito: l’America razzista di quegli anni non vedeva di buon occhio una presenza così marcata di giocatori di colore, per i beceri e vili motivi che purtroppo si è ascoltato per troppo tempo. I Miners, però, partono forte e concludono la stagione con 23 vittorie e una sconfitta. Fino ad arrivare alla finale delle nazionali. E visto che quando la storia si annoia si mette a giocare con le coincidenze, per l’ultima partita della stagione i Miners incontrano i Kentucky Wildcats, una delle università più conservatrici di quel tempo. Haskins, nel clima d’intolleranza e rigetto di quegli anni, decide di lanciare un messaggio forte: durante la finale giocheranno solo giocatori di colore. La gara finisce 72-65 per i Miners che si aggiudicano un titolo leggendario. E, al tempo stesso, rimangono le parole di Haskins: << Vuoi mollare? Te ne vuoi andare? Se molli ora, mollerai ogni giorno che vivrai! >>.
MONOLOGHI SULLA MUSICA: Alta Fedeltà, Nick Hornby
<< Che cosa è nata prima: la musica o la sofferenza? Ai bambini si tolgono le armi giocattolo, non gli si fanno vedere certi film per paura che possano sviluppare la cultura della violenza, però nessuno evita che ascoltino centinaia, anzi, dovrei dire migliaia di canzoni che parlano di abbandoni, di gelosie, di tradimenti, di penose tragedie del cuore. Io ascoltavo la pop music perché ero un infelice. O ero infelice perché ascoltavo la pop music? >>
È il monologo iniziale di Rob Gordon, protagonista di Alta Fedeltà, romanzo di Nick Hornby da cui è stato tratto il film con John Kusack.
Un esempio, questo come molti altri, che dimostra come anche la musica, e più nello specifico le canzoni, può dare il la per monologhi infiniti, profondi e spesse volte anche un po’ deliranti. E’ il caso del romanzo, in cui il protagonista, stilando una classifica dei suoi più memorabili fallimenti amorosi, ripercorre i suoi rapporti con l’altro sesso servendosi di una colonna sonora destinata a diventare iconica.